Pare che l’accostamento paronomastico fra traduttore e traditore risalga – al plurale, ‘traduttori, traditori’ – al 1539, ad opera del poeta satirico Niccolò Franco. Da allora è entrato nell’uso comune, tanto che viene accolto dal 1935 anche in area anglo-sassone – sempre al plurale: ‘Translators, traitors’-, nell’Oxford Dictionary of English Proverbs.
L’obbligo all’aderenza al testo originale e la sua (inevitabile?) infrazione sono diventati un luogo comune, e sembra essere anche al centro della questione sollevata dalla traduzione italiana del poema Zong!, sconfessata e rifiutata dall’autrice Marlene NourbeSe Philip.
Non essendo in grado di visionare la traduzione italiana, che non sembra essere più in vendita nei bookshop online – e avendo a disposizione, in pratica, solo le due pagine rese pubbliche dall’autrice stessa (Correspondence among all the parties involved in the unauthorised iutatranslation of Zong!) – non possiamo esprimere ovviamente una valutazione complessiva su di essa, cosa che andrebbe fatta non solo su singole parti o espressioni, ma anche sul risultato complessivo in rapporto alle scelte del traduttore. Ma è comunque possibile, a partire dalle motivazioni addotte riguardo alla insoddisfazione per il testo tradotto, esprimere alcune considerazioni sull’idea stessa di traduzione che ne emerge.
Intanto, quando ci riferiamo al testo originale (Zong!, Wesleyan University Press, 2011) va sottolineato lo sforzo dell’autrice nel tentativo di riportare un evento accaduto nel 1781, e che, secondo le sue stesse parole, non può essere raccontato e tuttavia deve essere raccontato: l’annegamento intenzionale di centinaia di africani trasportati come schiavi su una nave il cui nome era appunto Zong. Ma per farlo in qualche modo deve far ricorso alla lingua dei padroni e oppressori schiavisti. Non alla lingua materna, che non ha potuto conoscere, ma a una lingua straniera per l’autrice nata da discendenti africani a Trinidad Tobago:
“L’inglese è / la mia lingua padre. / Una lingua padre è / una lingua straniera, / perciò l’inglese è / una lingua straniera / non una lingua madre” (Discourse on the Logic of Language).
È una lingua che non può rendere la carica drammatica di un evento inenarrabile. Per di più, è la lingua della controversia giuridica relativa al risarcimento agli armatori responsabili dell’evento, in cui la tragedia dei prigionieri lascia appena una traccia indiretta, labile e allusiva. Forse l’unico modo di utilizzarla è quello adottato: smontarla e disperderla nello spazio della pagina come i corpi che cercano di respirare e affondano nell’acqua. Il che rende la traduzione non poco problematica. Per l’autrice infatti, la particolare disposizione di ogni parola o gruppi di parole o lettera implica relazioni particolari tra altre parole o gruppi “sopra, sotto o lateralmente”, ed è questo principio che governa la composizione a dare “una qualità fortemente visiva al lavoro” (Zong!, p. 203). Ciò che si rimprovera alla traduzione è anche il mancato rispetto di questo dato strutturale.
A parte critiche e considerazioni di vario genere, la principale opposizione dell’autrice alla traduzione italiana sembra dunque richiamarsi al detto citato sopra, in quanto incentrata sul mancato rispetto di un criterio fondamentale nella pratica traduttiva. Il codice stabilito dalla Federation of International Translators, citato, e quindi condiviso, dall’autrice, recita infatti (par. 4): “Ogni traduzione deve essere fedele e rendere esattamente l’idea e la forma dell’originale; questa fedeltà costituisce un obbligo morale e legale per il traduttore”. E ancora (par.11): “Come autore ‘secondario’, al traduttore si richiede di accettare obblighi speciali rispetto all’autore dell’opera originale”. Proprio la chiarezza e la precisione del linguaggio causano però un nugolo di problemi.
Già la definizione di “’secondary’ author” paradossalmente sembra riprodurre e contraddire la stessa formula che qualifica il traduttore: in quanto “autore” – sebbene ‘secondario’ – il traduttore avrebbe comunque la legittimità e la possibilità di intervenire sul testo. Traditore in quanto “traduttore”; ma anche “autore”, e quindi possibile e, entro certi limiti, legittimo “traditore” del testo originale.
Tuttavia, al di là di una questione di sottigliezze terminologiche e concettuali, il problema sollevato dall’autrice è tutt’altro che secondario, e rinvia a un’idea ampiamente diffusa che supporta la pratica della traduzione. Rinvia in sostanza all’idea di “fedeltà” (fidelity), non solo formale, al testo originale. Il problema però è proprio questa concezione che costituisce la base ancora diffusa e spesso sottintesa che regge in gran parte la pratica della traduzione. Essa presuppone la possibilità di definire un nucleo, o comunque determinati aspetti del testo di partenza, di elementi considerati fissi e stabili a cui il traduttore deve aderire e ricostruire. La traduzione consisterebbe in un’attività di semplice ricollocamento di equivalenze da una lingua a un’altra, da un testo a un altro.
In realtà, il testo originale non è materia inerte – invariante, appunto – che si tratta semplicemente di riprodurre o trasferire. Il testo originale, un testo, qualunque testo è sempre e comunque una ”pluralità differenziale”, uno spazio aperto “a interpretazioni multiple e in conflitto, e perciò a una successione egualmente eterogenea di traduzioni” (L. Venuti). Traduzione è già interpretazione. E quindi presa di posizione, con tutti i rischi che questo comporta, poiché sia la lingua e la cultura di partenza che quelle di arrivo non sono dati omogenei e stabilmente neutri. Anzi. Sono piuttosto spazi aperti attraversati da conflitti: tra lingua standard e dialetti, registri stili, pratiche linguistiche diverse; tra pratiche culturali, valori e gerarchie di valori diversi.
Traduttore è traditore, ma non nel senso di incapacità o impossibilità di riprodurre o trasferire una forma essenziale e invariante di significato contenuta nel testo originario, che il traduttore dovrebbe preservare intatta. Una traduzione può essere considerata manchevole o imperfetta, perde aspetti ed effetti del testo originale solo se si assume che essi siano invarianti che il traduttore deve riprodurre o trasferire. Ma nessuna traduzione può realizzare questo compito: le differenze linguistiche e culturali sottopongono sempre il testo a una trasformazione che è simultaneamente “decontestualizzante e ricontestualizzante, che altera e rimpiazza il processo significante del testo originario con un altro processo significante nel linguaggio con cui si traduce” (L. Venuti). Perciò i significati, i valori, e le funzioni che il testo originario produce nella cultura originaria alla fine apre la via a nuove possibilità di ricezione del testo in una cultura e una lingua differenti, in cui ricostruisce un diverso contesto di interpretazione. A maggior ragione il messaggio originale è trasformato e reinventato nelle forme culturali aperte all’interpretazione, come nei testi letterari, trattati filosofici, documenti legali, conferenze, e perfino sottotitoli di film.
Certo, non tutte le interpretazioni sono accettabili o ‘giuste’. Ci sono dei limiti imposti dai contesti, dalla lingua e dal testo, ma la traduzione si muove sempre in uno spazio in cui questi limiti sono incerti e provvisori, e in cui l’intervento soprattutto dovrebbe cercare di non circoscrivere l’interminabile processo di reinterpretazione che lo qualifica; e comunque non demarcazioni tali da permettere l’individuazione di invarianti semplicemente riproducibili – fossero anche le intenzioni dell’autore. Quando l’autore esiste, le sue intenzioni, anche espresse, non sono determinanti, e al peggio possono essere irrilevanti, poiché nella traduzione in quanto intervento interpretante “l’onere della decisione e/o il significato è spostato dal parlante come origine del testo all’ascoltatore/interprete come colui che interviene” (J.-J. Lecercle).
Come sarebbe possibile stabilire invarianti da riprodurre con fedeltà e accuratezza quando gli stessi canoni di accuratezza e fedeltà variano secondo le culture e i momenti storici? Le definizioni di invarianti cambiano parimenti, sempre ricostruite secondo un complesso di valori mai univoco. Ogni comunicazione attraverso la traduzione comporta che il testo originale sia riscritto in dialetti, discorsi, registri, stili di un’altra lingua e cultura, e questo si risolve nella produzione di effetti testuali che acquistano significato solo in esse. Si può sempre cercare di inventare elementi affini o similari per produrre questi effetti nella ricostruzione del testo straniero. Ma il risultato andrà sempre oltre ogni comunicazione e verso l’apertura alla proliferazione di possibilità di significato nella cultura di arrivo.
Questa idea di traduzione come operazione di interpretazione e trasformazione comporta un altro aspetto non marginale: il possibile ri-uso di un testo. Viene subito in mente Brecht – che nessuno legge più, ma che forse andrebbe ripreso e ri-meditato: grande ri-utilizzatore di versi e temi altrui, non a caso, “una delle parole che ritornano più volentieri sulle sue labbra è la parola «utile»”, diceva Cesare Cases. La vitalità di un’opera o di un pensiero presuppone la sua utilizzabilità, anzi ri-utilizzabilità; altrimenti non si spiegherebbe neanche l’esigenza di produrre nuove e ‘aggiornate’ traduzioni, che di volta in volta appaiono in momenti determinati.
Ciò non significa trascurare o minimizzare il carattere sacrale che la poetessa annette al testo: Zong! è soprattutto una “veglia”, che “utilizza la memoria al servizio del compianto”, come scrive espressamente nell’ultima parte del testo, fondamentale per la sua lettura (Zong!, p. 202). La questione è delicata e non va urtata la sensibilità di chi scrive e lotta contro ogni possibile razzismo nelle forme che sceglie di adottare.
Sorge tuttavia una domanda: è poi così dissacrante ri-utilizzare il testo in funzione di contesti diversi, per commemorare altre, non meno sacre, “vite de-nominate, cancellate, scartate e perdute”, come quelle che rimangono sulle nostre spiagge mediterranee, oggi? Che è la seconda ragione che l’autrice avanza contro la traduzione. Certo, ci sono differenze notevoli tra le vicende degli afro-americani e quelle dei nuovi migranti, ma non potrebbe essere questo un modo per far agire le differenze per nominare, onorare e commemorare tutte le vittime dei fascismi e razzismi passati e presenti? È poi così eticamente riprovevole e disdicevole essere interessati a fare in modo che Zong! “possa innescare una discussione sul razzismo in rapporto alla crisi dei migranti in Italia oggi e contro l’eredità del fascismo”? (Correspondence among all the parties involved in the unauthorised translation of Zong!). Dopotutto, il razzismo stesso assume volti diversi in contesti diversi, ma forse proprio per questo può essere importante, o comunque “utile”, politicamente agibile, la collocazione di un poema, un testo, un pensiero in un contesto diverso e vedere se e come funziona.
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