Bolzaneto. Per chi ci è nato e vissuto è Genova, anche se noi diciamo “andiamo a Genova” come se fosse un’altra città. Geograficamente sono poco più di 10 chilometri, mentalmente è un viaggio. Per tutti gli altri, Bolzaneto è il luogo famigerato della caserma del G8, in quel sanguinoso luglio del 2001.
Da qui inizia Genova macaia, la saga del ritorno e dell’esserci, in qualche modo protetto dopo l’essere stato altrove, che Pieranni ha scritto (sono certo) in un periodo di affondo nel senso di realtà. E di appartenenza inesausta, pur con formidabili sterzate dell’anima. “Macaia” (per Paolo Conte, “scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”) indica da sempre, nei genovesi, il languore portato dallo scirocco, il cielo coperto e l’umido che appiccica i vestiti alla pelle. Bonaccia di mare, bonaccia di anime strette fra il porto e le colline sovrastanti. Che Genova è città verticale, e verticali sono le sospensioni di chi la vive, la detesta e se ne allontana, e vi ritorna perché alla fine “Genova è un modo di essere”.
Ogni capitolo è formato dal dialogo intrecciato fra il padre, la nonna, la madre, lo zio: parole perentorie tagliate con l’accetta, e che non ammettono vuoti di memoria perfino quando la discrezione è quel che più viene esibito dal carattere sarvegu (che non gradisce confidenze e smancerie) dei genovesi. Bolzaneto, affettuosamente Bolza da sempre, per l’autore nato nei primi anni ’70, è prima di tutto il mito negativo di quella frontiera denominata Giro del vento dove risiedeva (si fa per dire) Minghella, pluriomicida di donne, alcune delle quali prostitute. Gli abitanti dei dintorni in quel periodo non si avvicinavano alla delegazione (così venivano denominati i paesi – prima comuni a sé stanti, poi rientrati nella cosiddetta Grande Genova – che dal centro città si snodano verso l’interno e che giungono fino a Pontedecimo, ai piedi del passo dei Giovi, confine con il Piemonte), intimoriti dalla presenza del serial killer e di suoi eventuali amici.
Ma, oltre che di fama, è anche il luogo di transito per eccellenza, dove Pieranni ha abitato a lungo, fino a che i palazzi furono demoliti per ampliare (oltre a edificare il mercato ortofrutticolo e altre imprese) lo svincolo e l’uscita autostradale di Bolzaneto, la prima giungendo sulla Genova-Serravalle da nord, percorrendo la A7, “camionale” voluta dal regime fascista e inaugurata nel lontano 1935. Camion, rampe, sbancamenti, che cancellarono bar-tabacchi, besagnini (fruttivendoli), perfino gli imprinting sui muri della squadra di calcio del Genoa. Sono pagine di descrizioni precise, ben lontane dallo spleen di nostalgiche canzoni dialettali, scatti fotografici precisi, capaci di irrompere nelle memorie storiche anche di coloro che non hanno vissuto in questi territori. Si sente l’odore delle Kim comperate alla madre, così come personalmente ricordo le Nazionali Esportazione acquistate più o meno negli stessi posti per mio padre qualche decennio prima. Storie di tabacco che racchiudono storie di Rom (un tempo si diceva “zingari”), ruberie, corse in bicicletta e sui carretti costruiti in strada, usando cassette della frutta e vecchi cuscinetti.
Bolzaneto, transito fra un’epoca e l’altra di commerci, oleifici (Gaslini) e piccole “ferriere” (Bruzzo) che preludevano a quelle enormi dell’Italsider a Cornigliano. È da qui che, attraverso il racconto, inizia il viaggio da Ponente a Levante, come se il film degli anni si srotolasse davanti ai passi dell’autore e ai nostri, che sappiamo e più spesso ignoriamo, lontani da enfasi e riposi mnemonici. Le crudezze di paesi arrugginiti, dove non si può che lavorare agli altiforni o ai cantieri navali, nella pioggia solforosa e carica di polvere ferrosa, hanno la verità appestata della cronaca. Che per la gente di qui è stata subito storia. E lo è ancora.
All’Italsider negli anni ’50 si entrava se qualcuno ripudiava la tessera del partito comunista, secondo i racconti dei padri e dei nonni che valgono per tutti, per Pieranni e per me, perché i decenni genovesi fino agli anni ’80 scorrono uguali, roba da cui i “pelandroni” erano ricacciati. Allora i partiti non facevano che costruire ovunque, e la Rinascente sembrava il miracolo moderno apparso subito dopo i presepi meccanizzati di Via Venti (via XX Settembre, in pieno centro), accanto al teatro “Margherita” e vicini all’insegna al neon del Cynar in Piazza De Ferrari. Modernità che la rossa Genova aveva visto i cittadini (gli stessi che avevano sminato il porto dalle bombe naziste) per le strade nella grande protesta contro il paventato congresso del Movimento sociale. E il governo Tambroni.
Insomma ai genovesi in quegli anni spesso “girava il belino” (vale a dire, incazzarsi) per come Roma trattava la città. Pieranni vuole dirci che Bolzaneto sta in un crocevia, da dove si può viaggiare da Ponente (Pegli, rivierasca e sbiadita) a Levante (Nervi, rivierasca e lontana) secondo curvature geografiche e temporali, tracciate perfettamente nel libro, che sbarcano per forza naturale nel cuore del Centro Storico di Genova, nei caruggi alle spalle dei moli.
Se esistessero tavole disegnate da Moebius immagineremmo i tram UITE (Unione Italiana Tramways Elettrici) delle linee 1, 7, 8, 10, 18, 22, 31, 39, ancora viaggiare trasparenti e incorporei sulle rotaie smantellate nel 1964. Fantasmi stridenti e irrazionali. Gli strati geologici mostrano ancora tutto: Sottoripa e San Bernardo, Conservatori del mare, Doria e Fieschi, camalli, prostitute, locali equivoci e gallerie d’arte, latterie, donne che vigilavano l’arrivo della madama, Madre di Dio distrutta dalle bombe e dalla speculazione, sopraelevata odiata e difesa, porto antico riaperto e rifatto da Renzo Piano per le Colombiadi, le parole messe in musica da Fossati e De André. La città blindata dai container nei giorni del G8. Le transumanze umane avvenute, e che tuttora avvengono, fra i diversi rami del Centro Storico, seguendo le vie del commercio e della droga. Dove resistono misteri che continuano a esserlo anche per i genovesi.
Pieranni, partito per la Cina nel 2001, ascoltando la voce dei familiari, e trasformata nella sua, descrive una Genova dell’anima per niente luminosa, simile alla velata Sottoripa di Montale ma luminescente di una miriade di tracce olfattive. Città dove tutto è partito, “il rumore di fondo” che gli ha permesso di tornare ogni anno, a rinfrancare la memoria e recuperare l’anima rispecchiata nella “faccia da genovesi” degli avi.