“L’Inghilterra non era affatto un luogo reale. Soltanto un alibi molto elaborato. In Inghilterra non accadeva nulla di vero. Soltanto cene e collegi e bancarotte. Tutto il resto, tutto quello che gli inglesi facevano e volevano davvero, tutto ciò che desideravano e prendevano e utilizzavano e gettavano via, tutto questo lo facevano altrove”. Sembra una sintesi cattiva dei romanzi della grandissima Jane Austen[1] invece è una teoria della signora Eliza Touchet, l’intelligente protagonista de L’impostore, ultimo libro di Zadie Smith. Dopo la brillante riscrittura de La donna di Willesden di Chaucer (2022), Smith si cimenta con il romanzo storico ambientato durante il periodo vittoriano che secondo la scrittrice è molto più interessante e radicale di come di solito viene rappresentato.
La storia è quindi basata su fatti reali e personaggi esistiti, con due protagonisti (Eliza Touchet e Mr. Bogle) che occupano e fanno vivere quei ‘silenzi’ contrapposti che hanno fatto la storia dell’Inghilterra e delle sue colonie. Ma il romanzo di più di 500 pagine composto da diversi libri e corti capitoli (molto, molto divertente e leggibile) e anche una rivisitazione critica del romanzo storico e una riflessione sulla verità, le pseudo verità e il loro intrecciarsi con i populismi estremamente attuale. Eliza Touchet ha circa 60 anni, è cattolica, abolizionista, governante, e, di tanto in tanto, anche amante del cugino, il romanziere vittoriano William Ainsworth vedovo di una donna morta giovanissima che mi pare rappresenti il vero buco affettivo e amoroso di Eliza Touchet.
È stata una scelta azzeccata scrivere un romanzo storico che parli del presente e rimetta in questione il passato scegliendo come esempio rovesciato uno scrittore come Ainsworth (morto nel 1885 e oggi del tutto dimenticato), autore di moltissimi “polpettoni” storici che, come ci ricorda ripetutamente la signora Touchet, sono illeggibili e noiosissimi. Ainsworth divenne molto famoso dopo aver scritto un romanzo che all’epoca vendette più di Oliver Twist ma che, per l’argomento trattato, venne accusato di avere una cattiva influenza sulla popolazione. Lo scrittore, evidentemente spaventato, cercò rifugio nella nostalgia del passato scrivendo romanzi storici che confortassero il lettore in una visione del tutto rasserenante. Non a caso la cugina rileva che Ainsworth è sempre assolutamente soddisfatto di ogni riga che scrive e che non cancella mai, neanche una parola.
Lo sguardo spietato che la protagonista (e con lei Zadie) rivolge al cugino e a tutta la congerie della comunità di scrittori di cui si circonda – fra i quali spicca un furbissimo e misogino Charles Dickens la cui carriera cresce in rapporto inverso a quella del povero rimbambito Ainsworth – non è mai privo di una comprensione sì ironica ma anche molto affettuosa nei confronti del cugino. Rimane nei ricordi del lettore la scena sobria ma toccante della morte di Ainsworth, lui è uno sciocco ma l’intelligente Eliza non manca di pietas. È evidente che Ainsworth può ben essere considerato un “impostore” della verità ma lo stesso si può dire di Dickens con il suo sguardo sentimentale sulle ingiustizie e moralizzatore sulle donne. O almeno questo pensa la signora Touchet che ne ha una pessima considerazione.
La parte coloniale dell’Inghilterra compare e si intreccia alle vicende di questi personaggi attraverso il caso Tichborne, uno dei più lunghi processi della storia giudiziaria inglese. Nel 1866 un macellaio affermò di essere lo scomparso Sir Roger Tichborne, dato per disperso in un naufragio anni prima. Il macellaio pesava il doppio del nobile disperso, non conosceva una parola di francese (la lingua madre di Sir Roger), parlava rozzamente l’inglese e non sapeva niente del passato della persona che pretendeva di essere. La signora Touchet è troppo arguta per credere a questo racconto improbabile ma rimane colpita da quello che una palese impostura è in grado di produrre: per le classi proletarie e lavoratrici il macellaio è un’icona seguita con passione in tutto il lunghissimo processo. La gente comune e i poveri vogliono con tutto il cuore che questo incolto macellaio vinca il processo, credono a una fola, ma mettono a fuoco la realtà di una giustizia profondamente classista. Non sarà un complotto – come pensa Sarah, la giovane seconda moglie di Ainsworth, donna incolta con un passato poverissimo che segue appassionatamente il processo coinvolgendo anche la signora Touchet – ma è indubitabile che se un povero avesse rubato una pecora sarebbe finito dritto dritto deportato, o ucciso se era uno schiavo nelle colonie. Lungi dal semplicemente disprezzare il populismo, Smith ne vede intelligentemente la complessità, le sfumature e anche gli effetti di verità che a volte può produrre. Certo Sarah è analfabeta e sciocca ma proprio per la sua origine e le sue esperienze sa con acutezza illuminare certe ingiustizie e ipocrisie dell’epoca vittoriana.
Il macellaio è accompagnato nella sua avventura da Mr. Bagle, un ex schiavo giamaicano che è il principale e indefettibile testimone della sua presunta identità. Eliza Touchet ne è attratta, riesce a conoscerlo e si chiede: “È possibile mentire sinceramente? Essere bugiardi senza saperlo?… Che mistero era il signor Bagle!”
Una buona parte del romanzo contiene quindi un ulteriore romanzo, quello di Eliza Touchet che decide di scrivere la storia, anzi le tante storie che si intrecciano, di Bagle, così come lui le racconta, e quindi anche la storia delle piantagioni; un romanzo che ha al centro la parola interdetta “schiavitù”, parola che fa diventare l’Inghilterra un luogo reale. Ben altro da quella Giamaica idilliaca ed esotica di uno dei romanzi di Ainsworth ambientato nell’isola che non aveva mai visitato.
Il signor Bagle è in ogni caso un impostore: ma che tipo di impostore è? Il lettore non lo sa e la signora Touchet che ne trascrive la storia non da soluzioni certe.[2]
Zadie Smith – che in questi giorni è a Milano per ricevere il sigillo della città – ha detto, rispetto all’insondabile Mr Bagle, che presentarlo in questo modo non è stata una sua decisione, che lui è così; nelle carte del processo che ha consultato, le motivazioni del suo agire non sono chiare e ripete sempre la sua testimonianza senza mai cambiarla. Perché Bagle fa quello che fa? L’autrice risponde che “Bagle è stato uno schiavo e poi un uomo semilibero in Inghilterra, ci sono così tante cose che gli sono state portate via che forse nel suo comportamento c’è una sorta di rivalsa. In fondo – se la cosa fosse andata in porto – avrebbe potuto ottenere importanti somme dallo stato britannico. Certo è che mantiene sempre le sue carte protette”.
Smith aggiunge di “credere in un principio etico ed estetico: che noi non abbiamo il diritto su tutto il dolore delle persone. È ben strano aspettarsi che le persone ci mostrino le loro cicatrici. Nabokov ci dice che il dolore è forse l’unica cosa che l’essere umano possiede e noi non possiamo arrogarci il diritto di conoscere il loro dolore. Mi piaceva l’idea di rappresentare questo diritto all’aspetto privato del dolore”.
La signora Touchet rileva che Bogle prende un capitale garantito (il ripristino del sussidio che la famiglia di Sir Roger gli dava) e sceglie liberamente di “barattarlo con l’incerto profitto della verità!” Ed è proprio questa ferma decisione che i poveri e i proletari inglesi sostenevano con tutte le loro forze e ai loro occhi rendevano “vera” la storia del macellaio. “Nell’opinione dei mangiatori di lumachine [come il giudice li chiamava con disprezzo] nei posti in piccionaia non esisteva sacrificio più grande, né un gesto più nobile, no, non esisteva sulla faccia della terra”.
Il caso Tichborne era una ‘verità’ dove il passato veniva manipolato con l’occhio al futuro, strappando un velo alla menzogna di classe. Sempre a questo proposito Smith fa un parallelo con il caso di O.J. Simpson (1994-1995). Al di là della colpevolezza o meno di Simpson un fatto incontrovertibile è che “le giurie erano composte da bianchi e questo è durato per centinaia di anni. Significa che ci son cose che il razionalismo liberale non riesce a cambiare ma che possono essere cambiate da una ‘follia’ populista”.
La scrittrice, attraverso un senso del ritmo e dei dialoghi impareggiabili, non manca inoltre di mostrarci l’intrecciarsi delle diverse oppressioni. La signora Touchet fa un elenco da par suo delle oppressioni delle donne. “Le umiliazioni della pubertà. / La distinzione delle più belle da quelle di aspetto comune e dalle più brutte. / Il terrore della verginità. / Le difficoltà del matrimonio e del parto – o la loro assenza. / La perdita di quella stessa bellezza attorno al quale sembra girare il sistema. / Il cambiamento della vita. / Che strane vite vivono le donne!”
Ed è ancora una volta il silenzio di Bogle a rilevare quelle di razza. Il proletario (bianco) Jack esclama “ma che dici, sei stupido? Quello era proprio il punto, perché se non abbiamo diritti allora non siamo tutti quanti schiavi!”. Bogle tace e, finito il processo con la condanna del macellaio, così risponde alla signora Touchet: “Farò quello che devo, immagino, signora Touchet. Sopravviverò in qualunque modo mi sia possibile. È quello che la mia gente ha sempre fatto, lei mi capisce”
[1] Notoriamente l’unico romanzo di Jane Austen che parla di colonialismo e schiavitù è Mansfield Park (1814). Secondo Edward W. Said “Più chiaramente che in ogni altra sua opera, Jane Austen sincronizza qui l’autorità interna, in patria, con quella coloniale, sottolineando come i valori associati a così alti concetti quali l’ordine, la legge e la proprietà debbano essere radicati fermamente nell’effettivo controllo e possesso del territorio. Ella chiaramente ritiene che possedere e governare la tenuta di Mansfield Park sia come in piccolo possedere e governare le proprietà coloniali a questa strettamente, per non dire inevitabilmente associate”. (Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, 1998)
[2] Borges, che su questo caso ha scritto il racconto Tom Castro, l’impostore inverosimile, ipotizza che Bogle fosse la mente astuta dietro il macellaio, colui che tutto aveva inventato e condotto, un vero e proprio genio narrativo.