Zadie Smith / La Sex Positivity da Canterbury a Brent

Zadie Smith, La donna di Willesden, tr. Dario Diofebi, Mondadori, pp. 116, euro 17,50 stampa, euro 9,99 epub

Si sa che la comunicazione tramite social è piena di fraintendimenti. Così è successo che Zadie Smith a causa di un tweet galeotto si è ritrovata a scrivere la sua prima pièce teatrale misurandosi con “La donna di Bath” uno dei 24 racconti che compongono  I racconti di Canterbury scritti nel XIV secolo da Geoffrey Chaucer, a sua volta influenzato e suggestionato dal Decameron di Boccaccio. O almeno così scrive Smith nell’introduzione al libro dove sottolinea “l’interessante ruolo che limiti, regole e restrizioni possono ricoprire”. Zadie Smith assicura che – proprio per questi limiti – scrivere La donna di Willesden è stata “una delle esperienze di scrittura più piacevoli della mia vita”.

Uno dei limiti è la forma: Chaucer scrive  in “versi di distici rimati da dieci sillabe l’uno”. Smith sceglie quindi di usare il pentametro,  verso classico inglese, mentre  il traduttore in italiano Dario Diofebi, per onorarne le regole e le restrizioni, scarta la prosa e usa gli endecasillabi sciolti con eccellenti risultati. Chaucer per dare voce ai “senza potere” scelse l’inglese medio: in concordanza la scrittura di Smith (padre inglese e madre giamaicana) è piena di modi di dire colloquiali, popolari o in patois. La struttura del testo ricalca quella di Chaucer cambiando solo le ambientazioni: il prologo in un pub nel quartiere multietnico di Brent a Londra dove è nata l’autrice e il racconto nella Giamaica del XVII secolo.

Alyson di Bath di Chaucer, vestita di rosso, diventa la Alvita di Willesden di Smith che “indossa un intimo abbagliante, rosso / come le suole delle Jimmy Choo / false che porta”; il seducente diastema della prima diventa “il sorriso coi denti larghi” della seconda, i fianchi larghi sono gli stessi e la mezza età di Alyson diventa i 55 anni della nostra protagonista. La sfacciataggine delle due rimane però la medesima: sposate cinque volte e senza nessun rimpianto hanno le carte in regola per dire la loro sul matrimonio, il sesso, la religione e la morale, il piacere e il disprezzo di classe, senza chiedere il permesso a nessuno.

Come dice Alvita prima di salire sul palco: “State a sentire: non mi serve certo / una laurea o il permesso di nessuno / per dirvi di che stress sia il matrimonio. / Cinque ne ho avuti, dai diciannove anni!” Inizia così il lungo prologo in cui l’inarrestabile Alvita interloquisce con sicurezza e impudenza per rivendicare la propria filosofia di vita scontrandosi con rappresentanti della chiesa, amiche, zie, nipoti, i cinque mariti redivivi. E non mancano Dio, San Paolo, un Gesù nero, Socrate e addirittura un cameo di Nelson Mandela.

Una discussione caotica – non sempre politicamente corretta – piena di brillanti digressioni e discorsi sconclusionati. Se La donna di Bath usava cinicamente e senza rimpianti il matrimonio come mezzo per esercitare il proprio potere nell’Inghilterra del XIV secolo, Alvita difende a spada tratta il diritto di soddisfare il proprio piacere e sposare chi vuole senza per questo essere giudicata da chicchessia. Ne esce un personaggio decisamente poco addomesticato che si assume anche contraddizioni che farebbero alzare qualche sopracciglio: “Lui mi picchiava. Prima e ultima volta, / che permetto una cosa così, giuro. / Mi ha fatto male qui e qui, insomma ovunque… / Ma era bravo a letto, uno stallone, sapeva usar la lingua, anche per ore, / perciò anche quando mi facevan male / i lividi, trasformavo il suo amore / così scarso in oro. Forse lo amavo / più degli altri perché mi dava meno?”

Alvita assomiglia fin troppo agli stereotipi di cui si accusano gli uomini ma proprio per questo è un personaggio vivo che sembra sfuggire alle stesse intenzioni dell’autrice, sicuramente alle aspettative di chi legge. Non è certo preoccupata di essere un esempio positivo e forse ha bevuto un po’ troppo Bayleis (la sua bevanda preferita) quando dichiara: “È tutto istinto. Un po’ come mi sento. / Può essere alto o basso, bianco o nero. / Non m’importa, mi basta che gli piaccio. / Non serve che sia ricco o laureato… / Che posso farci?”

O quando allegramente si prende a pugni con Ryan, il marito studente e, dopo essersi intestata macchina e appartamento, prega Dio che lo benedica “ora che è del tutto / sottomesso a me”.

Al lungo prologo segue Il racconto della donna di Bath che è un vero e proprio esempio di giustizia riparativa “Trasposto dal Camelot di Artù / a Maroon Town, in Giamaica”.

Un ragazzo violenta una ragazza (“credeva che la sua forza gli desse / il diritto”) e per questo viene condannato a morte ma poi condotto davanti a Queen Nanny, la leggendaria leader dei Marrons giamaicani che nel XVIII condussero una lunghissima guerriglia contro le autorità britanniche. Queen Nanny si rivolge così al colpevole: “Ma la pena capitale non basta: / ci vuole giustizia riparativa. / Dovrai capire a chi hai fatto del male / e perché. Quindi ecco la mia proposta: / potrai restar vivo – se saprai dirmi / quel che noi proviamo. Dico noi donne. / Ciò che noi desideriamo di più.

Segue racconto tutto sommato abbastanza scipito e didascalico fino a quando Alvita torna a occupare la scena, liquida la coppia finale del racconto con un lapidario “Hastag benedetti”  e – se non fosse chiaro a tutti – ribadisce la sua filosofia di vita: “Oh Signore, dacci / sempre mariti giovani e tranquilli / e bravi a letto, e facci sempre viver / più a lungo degli uomini che sposiamo! / E per quelli sfigati che non vogliono / farsi comandar dalle loro mogli, / prego il Signor che gli dia vita breve!” Sipario.

Laura Betti interpretò la Comare di Bath nel film di Pasolini I racconti di Canterbury (1972): “imponente come una scultura allegorica sul portale di una chiesa romanica” scrive Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto. In effetti la povera giaguara infagottata in una specie di burqa rosso da cui spuntano il volto triangolare e gli occhi tondi è quanto di più lontano si possa immaginare dalla Sex Positivity a cui si ispira Alvita con i suoi abiti attillati che si cuce da sola.