Contrariamente a quanto il sottotitolo (La questione della tecnologia in Cina) forse può far pensare, Cosmotecnica non si occupa affatto di interpretare le trasformazioni politiche e culturali che hanno dato vita al rush tecnologico cinese degli ultimi quaranta anni. I suoi vettori e i suoi attori (“il più grande accelerazionista del campo socialista, Deng Xiaoping”) sono noti. Il problema, secondo Yuk Hui, è semmai restituire a questa traiettoria – prodotto estremo del progetto scientifico ed economico moderno – una coscienza e una ontologia diversa da quella universalmente imposta dalla tradizione occidentale, che possiamo far risalire al cogito cartesiano. In pratica, una filosofia della tecnica che si riconosca nella diversità dei possibili orientamenti verso il mondo come bene comune per il pianeta. E il primo passo verso questa consapevolezza è appunto capire che “l’incoscienza tecnologica è l’essere più invisibile, ma allo stesso tempo più visibile”.
La riflessione che attraversa Cosmotecnica (apparso in prima edizione inglese nel 2016) prende le mosse da un’oscura profezia di Martin Heidegger, che apparentemente aveva previsto già negli anni ’40 il futuro cinese, diventato ora il nostro presente: “Se in Cina il comunismo dovesse arrivare al dominio, ci sarebbe da presupporre che solo su questa via la Cina si renda ‘libera’ per la tecnica”*. Per lo studioso originario di Hong Kong, allievo di Bernard Stiegler e fondatore del Research Network for Philosophy and Technology, occorre interrogarsi su “cosa significa diventare ‘liberi’ per la tecnologia” e se questo non significhi, appunto, “cadere preda dell’incapacità di riflettere su di essa e di trasformarla”: come, appunto, starebbe succedendo in Cina. In quanto umani, occorre invece chiedersi in che modo possiamo intervenire sul nostro destino tecnologico, e quindi sul nostro rapporto con il mondo e con noi stessi, mediato dalla tecnica. Non proprio una domanda oziosa, tanto più che la Cina dovrebbe acquisire entro un decennio il primato tecnologico in molti settori strategici e diventare a tutti gli effetti il “motore” della globalizzazione e dell’economia digitale.
In Cina il concetto di tecnica (τέχνη), come lo intendevano i Greci e come lo intendiamo noi, in pratica non è esistito per oltre 2000 anni, malgrado, come è noto, il sofisticato livello della tecnologia rispetto al medioevo europeo, testimoniato dall’invenzione della polvere da sparo e del carattere mobile. Yuk ricorre alla distinzione dell’antropologo Lerol-Gourham per distinguere tra tendenze e fatti tecnici: la “ruota” è una tendenza, più o meno riscontrabile in molte civiltà: il modo in cui è stata recepita e realizzata (i raggi, i carri, etc.) costituisce invece un “fatto” e può variare da una cultura all’altra. Diverse ontologie ripropongono poi un diverso grado di partecipazione con la sfera della “natura”, un diverso rapporto tra il proprio corpo e il resto del mondo, come ad esempio nello schema elaborato da un altro etnologo, Philippe Descola (Oltre natura e cultura, Cortina 2014) che distingue nella storia dell’umanità animismo, totemismo, naturalismo (occidentale), analogismo (asiatico).
Il concetto di “Cosmotecnica” di Hui è in parte debitore della riflessione di Gilbert Simondon sulla contiguità tra oggetti tecnici e pensiero mitico: in breve abbraccia un’attitudine metafisica che si riflette non solo nelle idee dei filosofi e dei regnanti ma nella storia di una civiltà e, in particolare, nella sua tecnologia. Una cosmotecnica “prometeica”, come quella occidentale, orientata al dominio umano sulla natura, si presenta come moralmente agnostica e portata a sviluppare al massimo grado strumenti teorici (geometria, induzione, etc.) e operativi (orologi, mappe, navi, telescopi) per sfruttare il suo vantaggio competitivo nello spazio e nel tempo. Una cosmotecnica come quella cinese, basata sull’equilibrio di un pensiero correlativo, che pone in relazione dinamica cielo e terra, Qi e Dao (la via), privilegia la ricerca di un’armonia e di un ordine cosmico, che concili la condizione dell’esistenza individuale con la mutevolezza del mondo. Nella prima parte del libro Yuk Hui presenta la “cosmotecnica cinese”, ripercorrendo le correnti del Confucianesimo e del Taoismo e le influenze buddiste, che attraverso i secoli hanno dato vita alla filosofia dell’Impero Celeste, qui descritte soprattutto nel complesso di cosmologie volte a trascendere e a non esaurirsi nel punto di vista di una filosofia morale. Si va così da Laozi (V secolo A.C.) fino alla disfatta in seguito alla guerra dell’oppio e all’aggressione commerciale e militare da parte dell’Impero inglese a metà Ottocento, e ai successivi tentativi di adeguamento e di “modernizzazione” dell’episteme tradizionale proseguiti fino alla rivoluzione.
Nella seconda parte Yuk Hui tira le fila del discorso, che si chiarisce ricongiungendosi alle sue premesse e virando decisamente verso le istanze del presente. Se la metafisica occidentale è culminata nella cibernetica, secondo la nota formulazione heideggeriana (Filosofia e cibernetica, ETS 1988), la risposta alla “questione della tecnologia” non consiste oggi nel rigettare la tecnica come regolatore delle nostre vite o nell’accoglierla come destino ma semmai nell’imparare a immaginarla come sistema operativo del nostro prossimo futuro su questo pianeta. Importante e urgente, secondo il filosofo tawanese, è quindi per prima cosa “la riflessione sulla propria storia e ontologia da parte delle diverse culture, così da poter adottare le tecnologie digitali senza essere semplicemente sintonizzati in un episteme ‘globale’ e ‘generico’”. La Cina, la sua cosmologia, Qi e Dao, sono solo un esempio, probabilmente il più appariscente. In che modo possono contribuire a un mondo gestito attraverso AI e algoritmi deep learning? Rinegoziare una nuova universalità, non più totalizzata dall’asse temporale della modernità, non significa infatti cadere nel suo opposto: il sapere locale “non è la rassicurante alternativa del globale”, ma semmai il momento in cui una pluralità allogena, dotata di forze e capacità critiche appropriate alla nostra epoca, “si appropria del globale, perché è capace di confrontarsi e di trasformarlo”.
Soprattutto, come il saggio mette ben in chiaro, non si tratta di perorare il recupero della tradizione in chiave nostalgica o identitaria, strada che dalla Scuola di Kyoto di Nishida Kitarō degli anni Trenta – per molti aspetti un think tank filosofico al servizio delle mire imperialistiche giapponesi – alla quarta via “rossobruna” ipotizzata oggi da Aleksandr Gel’evič Dugin, è stata puntualmente percorsa dalla destra politica nazionalista e ultra-reazionaria. In questa prospettiva viene analizzato anche il pensiero di Keiji Nishitani, allievo di Kitarō e di Heidegger, che nella prima metà del Novecento costruisce il suo edificio teorico attorno al concetto di Śūnyatā (che tradurremo alla buona come “vacuità” o “nullità”), derivato dalla tradizione buddista, incontrapposizione al “nichilismo” occidentale in chiave di “guerra totale” (e non era una metafora).
Secondo Yuk Hui per primi in Europa si è provato a guardare attraverso la modernità, oltre l’ontologia della modernità stessa, con un ripensamento che l’autore fa risalire alla riflessione avviata ormai quarant’anni fa da Jean-François Lyotard sul postmoderno, una riflessione rimasta ancorata però prevalentemente al campo estetico, anche al di là delle reali intenzioni del sociologo e filosofo francese. Ma da allora i contributi sono stati numerosi, la prospettiva si è articolata nella visione di Bruno Latour che, superando la divisione tra natura e cultura, soggetto e oggetto, richiamerebbe in primo piano la consapevolezza della tecnica; e in quella di Bernard Stiegler, recentemente scomparso, con specifico riguardo alla sua riflessione sulle tecnologie.
Anche qualora l’Europa si facesse protagonista di questo cambiamento, il suo peso sarebbe relativo e probabilmente conterebbe ancora meno in un prossimo futuro. Né basta, secondo Yuk Hui, affrontare la questione della tecnologia in chiave esclusivamente di narrazione, secondo il modello della letteratura comparata introdotto dagli studi di decolonizzazione. A fronte di un’evidenza comune – perché “non possono esistere oggetti tecnici indipendentemente, ma soltanto in un ‘mondo’, esattamente come si danno ‘Studi Classici’ solo all’interno del canone occidentale” – qui non si tratta soltanto di capovolgere la narrazione. Ma di modificare questioni politiche e affrontare fattori materiali che nella competizione globale oggi spingono verso “l’incoscienza tecnologica” e l’universalizzazione di quel “pilota automatico” che ha guidato l’antropocene negli ultimi due secoli.
*M. Heidegger, Quaderni Neri I-V 1942/48, pag. 586