Yanis Varoufakis / Che fine ha fatto il capitalismo?

Yanis Varoufakis, Tecno Feudalesimo. Cosa ha ucciso il capitalismo, tr. di Salvatore Serù, La nave di Teseo, pp. 368, euro 24,00 stampa, euro 13,00 epub

I marxisti hanno predetto spesso il crollo imminente del capitalismo, poi puntualmente uscito come Dracula dalla sua tomba. Ma se a succedergli, fino a qualche tempo fa, erano le splendide sorti e progressive di un qualche socialismo, ultimamente è una forma ancora più fosca e distopica di post-capitalismo con gli steroidi digitali di Silicon Valley.  Dopo Cédric Durand con Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique (Zones, 2019) e Mckenzie Wark con Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire (Nero, 2021), citati nei ringraziamenti, Yanis Varoufakis si inserisce ora in questo dibattito, sollevato alla metà degli anni ’10 da Evgeny Morozov, Shoshana Zuboff, Cory Doctorow e da altri. Il suo libro si rivolge però, anche retoricamente, a chi il crollo del capitalismo lo ha auspicato tutta la vita sperando in qualcosa di molto diverso, al militante storico della sinistra, a un padre ingegnere comunista, passato per i campi di prigionia al termine della guerra civile che ha insanguinato la Grecia degli anni ’40.

“Marxista libertario”, ex ministro delle finanze durante la crisi del 2015 con il governo di Syriza, di cui disapprovò il cedimento al diktat euro tedesco, fondatore del movimento transeuropeo Diem, Varoufakis, escluso dal parlamento dopo il crollo della sinistra greca alle ultime elezioni, resta un economista fuori dal coro e un divulgatore brillante. La tesi del libro non è inedita ma sicuramente ben articolata e argomentata nel contesto della storia economica recente: un capitalismo cloud, incarnato da Big Tech e dalle nuove sette sorelle di Silicon Valley (Google, Apple, Meta, Tesla, Amazon, Microsoft, Nvidia), mega aziende singolarmente con una capitalizzazione  superiore al PIL di svariate nazioni, sta prendendo il posto del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli, come questo a sua volta era succeduto al feudalesimo. Intendiamoci: il capitalismo standard, non solo industriale, esiste sempre, come del resto la proprietà fondiaria non era scomparsa con l’affermazione dei capitalisti ai tempi di Marx. Le aziende presenti su Amazon o su Apple Store, in un mercato che non è affatto tale, devono però ora rassegnarsi a una posizione subalterna nella catena alimentare del profitto.

Questo nuovo regime economico, altrove chiamato “vettorialismo” (Wark), “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff) o delle piattaforme (Vecchi), Varoufakis lo chiama Tecno Feudalesimo sottolineando la discontinuità dei rapporti sociali instaurati rispetto al vecchio capitalismo. Se a Marx è capitato di parlare di industrial feudalism ironicamente, oggi non si tratta però di una metafora. La sua diversità, secondo l’economista greco, non si coglie tanto nella rendita che i nuovi feudatari di Silicon Valley e i loro omologhi cinesi (Tencent, Ali Baba, Baidu, ecc.) possono imporre oggi, in condizioni di vassallaggio, anche al profitto: la rendita è in fondo sempre stata anche l’obiettivo di qualsiasi capitalista, perseguita con il monopolio, il brand, la nicchia competitiva, ecc. Né nella condizione di lavoro servile a cui si assimila sempre più spesso il rapporto di guidatori, magazzinieri e rider con il capitalismo “algoritmico”. No, questo nuovo capitale si distingue perché può, per la prima volta, riprodursi anche al di fuori del lavoro vivo, con il contributo, più o meno consapevole, e ormai praticamente obbligatorio, di noi “servi della gleba” attivi H24 sulle piattaforme e sui social. Riprodursi mobilitando desideri e comportamenti in un modo che Don Draper, il mago della pubblicità della serie Mad Men, non avrebbe mai nemmeno lontanamente immaginato. Per questa ragione anche i vecchi strumenti dei lavoratori – sindacato, scioperi salariali, ecc, – già decimati durante la fase neo liberista, risulterebbero comunque insufficienti.

Risorto dalla crisi delle dot com del 2001, il capitalismo cloud ha colto la sua occasione storica dopo la crisi del 2008 in Occidente e, in pratica, il crollo finanziario del neoliberismo che ha spinto per un decennio le banche centrali a stampare denaro come se non ci fosse un domani. Soldi che, non potendosi trasformare in investimenti nelle società industrializzate strizzate dell’austerity, si sono riversati nelle casse e negli asset azionari di Bezos e compagni. L’attuale Tecno Feudalesimo risulta in questo senso l’altra faccia di una crisi, quella del patto che, come illustra Michael Pettis in Le guerre commerciali sono guerre di classe (Fanucci, 2021), tra i pochi economisti che Varoufakis cita, per tre decenni ha legato Wall Street alle classi dirigenti dei Paesi in surplus commerciale come Germania, Giappone e ovviamente Cina. Un patto, che dalla fine di Bretton Woods e del dollar gold exchange di Nixon nel ’71, ha visto il dollaro come dominus e il mercato Usa come consumatore di ultima istanza. Un patto oggi ufficialmente in crisi, dopo che la Cina degli anni ’10, a differenza del Giappone degli anni ’80, non si è allineata al diktat di Washington e di Trump, e non sembra intenzionata a cedere alla “guerra dei microchip” di Biden, ora estesa a anche a TikTok.

Comunque si valuti la sua visione, Varoufakis si conferma uno dei rari cervelli in Europa in grado di immaginare un diverso presente e lo fa anche nell’ultima parte del libro, con una serie di proposte per democratizzare radicalmente denaro, lavoro e reddito in un’immaginaria (utopica?) società post-capitalista. Significativamente, scrive queste pagine, analizzando l’irresistibile ascesa dei post capitalisti cloud, proprio tra il 2022 e il 2023, quando il NASDAQ, dopo una discesa a picco del 40% sembrava aver perso l’appeal e il valore accumulato durante i lockdown, con la febbre dei titoli “stay at home” come Zoom, Docusign o Amazon stessa. Proprio quando i commentatori meno lungimiranti si compiacciono per il momentaneo “ritorno alla normalità”.