Avete presente un tipico film di Woody Allen? Trama scoppiettante, battute memorabili, penetranti riflessioni sulla vita e divertimento assicurato? È esattamente ciò che troverete nella sua autobiografia, che per fortuna un editore (La nave di Teseo) ha deciso di pubblicare, malgrado la tempesta mediatica che ha travolto il suo autore. Questo e molto più troverete, perché con A proposito di niente Allen ha lasciato ai posteri un ennesimo saggio del suo genio.
Il libro è modellato sul capolavoro comico di Lawrence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (Mondadori, 2018), testo fondante della letteratura inglese. Evidenti i richiami interni, lo stesso humor sagace, anche qui la narrazione procede per continue digressioni, nel tempo e sui personaggi, costellata di locuzioni come “Riprendiamo il racconto”, “Dove eravamo rimasti?”, “Ma sto divagando”, “Ma di ciò avremo modo di riparlare”, che trasmettono l’impressione di una conversazione arguta e brillante, condita di gustosissima autoironia e un alto grado di sincerità: in questo libro il politically correct non trova alloggio, vivaddio! Allen mescola sapientemente registri (l’autobiografico, il lirico, il descrittivo), e tecniche (la narrativa, la sceneggiatura), alternando l’uso del passato e del presente, conferendo così freschezza e movimento al racconto, pieno di dialoghi esilaranti e di profonde riflessioni. Siamo insomma al cospetto di un libro che, come ci si poteva aspettare, sprizza intelligenza, ironia e comicità da ogni riga, toccando argomenti impegnativi con ammirevole levità. Un racconto autobiografico il cui vero tema è così esplicitato: “L’uomo che cerca Dio in un universo violento e privo di senso”.
Deliziosi i ricordi dell’infanzia di Allan Stewart Konigsberg (il nome Woody Allen lo avrebbe assunto anni dopo), nato il primo dicembre 1935 nel quartiere di Brooklyn, in una sana ma litigiosa famiglia appartenente alla piccola borghesia ebraica. Evocate con commosso affetto, le figure che sfilano in queste pagine hanno la vivida realtà e l’umanità dei personaggi di un grande romanzo: il padre, simpatico guascone, uomo senza “alcuna predisposizione a essere il sostegno della famiglia”, la madre, concreta donna di polso e vero pilastro della famiglia, l’amorevole sorella Letty (sua futura produttrice), la cugina che lo inizia al cinema, gli amichetti. E i luoghi: l’appartamento sulla Quattordicesima Strada, la sala cinematografica dove il piccolo Allen trascorreva ore lietissime (“il Midwood, che in pratica era diventata la mia seconda casa”), i minuti eventi, come l’emozione provata a sette anni quando il padre lo porta a Manhattan, descritta magistralmente in tutta la sua brulicante vitalità. E i ricordi della Seconda guerra mondiale, le passioni di quel tempo lontano: la magia e l’illusionismo (“Ho sempre disprezzato la realtà e bramato la magia”), il baseball (e qui smonta l’equivoco che lo vede negato per lo sport), il jazz, naturalmente il cinema.
Allen ci tiene a sfatare il mito di un’infanzia sofferta, la definisce anzi “felice”, ed è il primo a meravigliarsi di essere diventato “un nevrotico”, cresciuto in “un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato”. Gioca comunque molto sull’autodenigrazione: si definisce, a più riprese, “essere abietto”, “ingenuo babbeo”, “smidollato”, “balordo”, “verme spregevole”, “ragazzo stupido e sconnesso dalla realtà”, “imbranato”, “maldestro sognatore”, “presuntuoso “, “un rottame immaturo e disadattato”. Si sofferma sulla propria “ignoranza”, su libri mai letti e film mai visti, smontando così l’altro mito che lo circonda, quello di una persona intellettuale (“un paio di occhiali non bastano a rendere colta una persona, e tanto meno intellettuale”).
Sempre scorrazzando su e giù nel tempo, parte poi il racconto dell’accidentato rapporto con la scuola superiore e con l’università (presto abbandonata), delle prime esperienze con l’universo femminile (una vita amorosa definita “teatro dell’assurdo”), che rivestirà grande centralità nella sua opera, il rapporto con la religione ricevuta (“e io avrei dovuto sprecare il mio tempo in quelle cose?”), gli inizi come battutista (“le mie sublimi scempiaggini”), il vaudeville scoperto per caso (“un’esperienza apocalittica”), i maestri e le figure di riferimento, le persone che aiutarono la sua carriera e la rammemorazione appassionata dei suoi tanti collaboratori (verso i quali è sempre prodigo di riconoscimenti), il primo matrimonio, l’esperienza della radio, del cabaret, degli show televisivi, l’ingresso nel mondo del cinema con la sceneggiatura di Ciao Pussycat (1965), gli esordi da regista, il rapporto con gli psicanalisti, l’attività da musicista dilettante, le storie d’amore: insomma, vita privata e dimensione pubblica perfettamente fuse.
Al di là di tutto questo, delle rievocazioni dei suoi film (che faranno felici gli amanti del cinema), dei gustosissimi aneddoti, degli aforismi e delle battute fulminanti, questa autobiografia è uno straordinario viaggio nel tempo, nella cultura, nello spettacolo e nella società americane: eventi, film, musica, fumetti, sport, radio: c’è tutto il fecondo immaginario di quel Paese, raccontato con sapidissimo brio, mescolando realismo e ironia, dramma e comicità. Vi compaiono personaggi che sono patrimonio culturale di noi tutti e l’elenco è sterminato: quest’uomo di ottantaquattro anni ha attraversato momenti storici unici. Troverete qui registi che appartengono al gotha del cinema (Groucho Marx, Ingmar Bergman, Alfred Hitchcock, Federico Fellini, Francois Truffaut, Michelangelo Antonioni, Godard, Milos Forman, Sidney Lumet, John Huston, Mel Brooks, Roman Polanski), scrittori (l’adorato Tennessee Williams, Arthur Miller – “L’autore cui avevo dedicato un altarino nel mio appartamento di Brooklyn” –, Norman Mailer, Gore Vidal, Simone de Beauvoir), mostri sacri del jazz, (Cole Porter, Duke Ellington, Thelonius Monk, Miles Davies, John Coltrane), musicisti e autori di spettacoli celeberrimi, agenti e produttori potentissimi (non manca Harvey Weinstein), naturalmente attori (troppi per nominarli), personaggi straordinari da noi poco conosciuti, politici (il presidente Lyndon Johnson, la regina Elisabetta, il re di Spagna): un campionario umano ricchissimo. Non mancano poi le città (New York, Los Angeles, Parigi, Londra, Roma, Venezia, Barcellona, Oviedo) con i loro luoghi iconici, protagoniste esse stesse della narrazione.
Una nota di tristezza e sofferenza tinge la parte finale, quando Allen ricostruisce la “surreale avventura” della vicenda delle accuse di molestie rivoltegli dalla ex compagna Mia Farrow e poi dalla figlia Dylan, “dell’orrenda campagna stampa” che lo ha “perseguitato, calunniato e infangato” rendendogli la vita un inferno e il lavoro pressoché impossibile. Nota appena mitigata dalle descrizioni del rapporto con l’attuale moglie, Soon-Yi, “una fonte costante di gioia” (ma il cui modo di cucinare è “un crimine contro l’umanità”).
La sensazione è che Allen affronti questa materia incandescente con equilibrio e piglio fattuale (“ho cercato di documentare ogni mia affermazione, in modo da non basarmi solo sulla mia versione dei fatti, ma sulle conclusioni di indagini ufficiali”), per quanto, va da sé, le autobiografie sono sempre frutto di scelte ponderate su cosa dire e cosa escludere dal racconto. Pur non risparmiando particolari scabrosi (definisce Mia Farrow “una squilibrata” e “una madre manipolatrice”, il suo clan un “manicomio”), Allen non dà mai la sensazione di ipocrite vendette: piuttosto, il modo di affrontare quegli eventi dà più l’idea di un’autodifesa, e nel tentativo di legare le proprie esperienze con trame di film noti, regala perle d’intelligenza sul divario tra fiction e realtà: si ritrova così da “tessitore di sogni” a “mostro”. Ognuno potrà farsene l’idea che più gli aggrada, ma Allen, per quanto duramente colpito (“basta essere infangati una volta per essere sempre vulnerabili”), trova anche il modo di pronunciare l’immancabile battuta: “Spero non sia questo il motivo per cui avete comprato questo libro”. Infine, parla del suo ultimo film, Rafkin’s Festival, “una sfida “, visti gli ostacoli che ha incontrato a girarlo e che sta incontrando a distribuirlo.
In conclusione, dalla prima all’ultima riga questa autobiografia trasmette l’assoluta sensazione di realtà, della vita che si svolge davanti ai nostri occhi in tutta la sua drammatica, meravigliosa imprevedibilità, un libro che narra un’esistenza prolificissima, riassunta con un formidabile aforisma: “Tanti stupidi errori compensati da tanta fortuna”, col corollario di un grande rimpianto: non aver mai girato un capolavoro.
Ma su questo in pochi saranno d’accordo, credo. E neanche sul fatto che questo libro narri di una “sciapa saga alleniana”.