Se, come si legge nella presentazione della collana di e-book di Einaudi, i Quanti fanno riferimento alle “particelle fondamentali dell’universo”, e il loro primo proposito è di diffondere saggi brevi che mostrino gli “elementi essenziali” in cui provare a scomporre una realtà “mai come oggi confusa e oscura”, l’ultimo saggio in ordine di tempo di Wolf Bukowski non può che entrare di diritto in questa collana. Dedicato, infatti, a un elemento essenziale come il cibo, La merce che ci mangia è tanto una summa del lavoro di ricerca dell’autore nell’ultimo decennio (ricordiamo, a questo proposito, La danza delle mozzarelle. Slow food, Eataly, Coop e la loro narrazione, uscito per Alegre nel 2015) quanto un affondo necessario per poter inquadrare il tema in modo teoricamente fondato e politicamente consapevole.
In effetti, il cibo è davvero ciò che ci mangia, e non solo, banalmente, per la sua onnipresenza nelle più diverse tradizioni culturali, e nemmeno – approfondendo l’analisi – per la pervasività con il quale tale onnipresenza viene ri-prodotta: in altre parole, con i processi di gentrificazione e turistificazione già al centro della Buona educazione degli oppressi, pubblicato dall’autore nel 2019, sempre per Alegre. Il cibo ci mangia, soprattutto, in virtù della sua doppia e paradossale natura di merce, già presente nel dettato marxiano: nel Capitale, la cosa è costituita come merce dal capitalismo, ma ne è allo stesso tempo la cellula elementare – un quanto, probabilmente! – contribuendo, quindi, a costituire il capitalismo come tale; inoltre, nei Grundrisse – come rileva Bukowski, con acribia filologica – la merce è la “vera comunità”, per il soggetto, “che egli cerca di consumare e dalla quale viene consumato”, dove consumare traduce il tedesco verspeisen, che, più comunemente, indica il consumo di cibo, ossia, appunto, il mangiare.
A proposito di come si può essere consumati, si pensi alla brillante associazione di cibo e farmaci proposta da Bukowski: “Il corpo (e all’estremo opposto il cosmo) è luogo di conquista delle forme sempre nuove della merce; e poiché il corpo vi oppone una sorta di sorda resistenza, questo rende più acuto il desiderio della merce. Cibo e farmaci sono le sole cose e merci che si accettano nel corpo; l’idea per esempio dell’impianto sottocutaneo di un chip, pur avendo i suoi entusiasti come ogni altra perversione, rimane problematica per la gran parte delle persone. È quindi tramite il farmaco e il cibo, o meglio ancora una sintesi tra i due, che le merci più sofisticate cercheranno la propria naturalizzazione nel corpo”.
Tornando, tramite questa specifica e accorta critica dell’ideologia, al doppio riferimento marxiano, sia al Capitale sia ai Grundrisse, questo potrebbe già illuminare a quale tradizione marxista si rifaccia, per formazione, Bukowski (con uno spirito, tuttavia, che è anche lukácsiano, come si vedrà in seguito); per il momento, basterà sottolineare come nella comunità appena menzionata i rapporti personali si diano come interamente sussunti e mediati dalla merce. Del resto, sussunzione è un altro termine marxiano caro all’autore, al punto di essere presente come sfondo teorico in tutti i suoi saggi, assurgendo spesso a possibilità inquietante di sussunzione totale.
Di questa possibilità si trova traccia anche nel testo più recente, ad esempio quando Bukowski fa riferimento all’esponente tedesco della “critica del valore” Robert Kurz (soprattutto a La fine della politica e l’apoteosi del denaro, pubblicato da Manifestolibri nel 1997): “La ‘sfera della ‘politica’, benché oggetto di costante sopravvalutazione, si [conferma] ancora una volta quale ‘funzione secondaria nell’incessante processo di auto-mediazione della forma-merce’”. D’altra parte, Bukowski riserva, altrove, annotazioni più prudenti: “la merce è sì dappertutto, ma ancora non è tutto”. Vi è un margine, quindi, per la resistenza, anche se non risulta direttamente attenente – nemmeno per Bukowski – alla “sfera della politica” così com’è stata tradizionalmente intesa nel Novecento; tuttavia, è indubbio che esista ancora cibo che non è merce e che ci sia chi lo produce. Si tratta di una piccola parte del 70% del cibo prodotto nel mondo che, secondo una stima riportata dall’autore e riferita al periodo 2009-2014, proviene dalla piccola agricoltura: un esempio sul territorio italiano potrebbe essere la rete associativa Genuino Clandestino, attiva sin dal 2010 nel sostegno della piccola agricoltura etichettabile, per semplificazione, come “biologica” (ma che non ha nulla a che spartire con il marchio “bio” acquisito dalla Grande Distribuzione Organizzata) e “a chilometro zero” (ma che non ha nulla a che spartire con i paradossi di questa etichetta, spesso funzionale ai processi di gentrificazione e turistificazione già citati). Il testo, nella limitazione di spazio dei Quanti, non fa alcun cenno diretto a queste esperienze, preferendo risolvere la questione in un apologo finale sicuramente gustoso, ma che non per questo intende essere chiaramente militante.
D’altra parte, la proposta dell’autore di stanza sull’Appennino bolognese non si risolve soltanto in un consumo diverso: un altro brillante, forse sarcastico, paragrafo del saggio mette in relazione la persuasività delle nuove tecniche genomiche rispetto agli OGM transgenici (“forse vi sarà chi, tra un po’ di tempo, ricorderà sinceramente d’esser stato, e fin dall’inizio, non contro gli Ogm ma a favore di Ogm diversi”) con il parallelo moto di persuasione (influenzato, in ogni caso, da una ormai storica, e famosa, repressione) del movimento no global, poi diventato altermondialista: “molte delle persone che vi avevano aderito si erano convinte d’esser state, e fin da principio, non contro la globalizzazione ma a favore di una globalizzazione diversa”.
Occorre, invece, fare un passo in più e abbandonare le proprie “abitudini di pensiero già reificate”, espressione che Bukowski riprende direttamente dall’ormai centenario Storia e coscienza di classe di György Lukács: “Cibo tecnologico e tecnologia cibo vanno invece riconosciuti nella loro nuova qualità. Che è quella d’incidere, e sempre più profondamente, il segno della merce ‘su tutte le manifestazioni di vita’”. Soltanto nella consapevolezza di questo meccanismo che è già tutto dentro di noi, si potrà avere un saggio di quelle grandi sussunzioni che, pur non essendo definitive, rischiano comunque di surclassare le grandi dimissioni (per ricorrere al titolo di un fortunato e prezioso saggio di Francesca Coin dell’anno scorso) e qualsiasi altra forma di resistenza e antagonismo al capitalismo sempre più chiaramente trionfante, divoratore ma, in questo, anche annichilente.