La forma del BookBlock – titolo della fortunata serie di saggi brevi di Eris Edizioni – ben si addice alla scrittura di Wolf Bukowski che, dopo tre volumi usciti per Edizioni Alegre (l’ultimo, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, è del 2019), contiene il proprio intervento su “inquinamento luminoso e messa a reddito della notte” nelle 64 pagine che è la misura standard della collana. Si tratta, infatti, di un contributo saggistico che, proseguendo nell’alveo del lavoro di analisi portato avanti dall’autore nei libri precedenti, apre a una molteplicità di sviluppi futuri. Innanzitutto, l’interrogativo presente nel titolo – “perché non vediamo più le stelle?” – riguarda tanto il recente fenomeno dell’astroturismo (la ricerca di luoghi in cui sia possibile vedere almeno un po’ meglio quel cielo stellato che l’inquinamento luminoso rende quotidianamente impossibile) quanto il suo doppio, ancora più elitario, ossia il turismo spaziale (foriero, in un prossimo futuro, di un colonialismo spaziale che, con ogni probabilità, rinnoverà le atrocità della storia del colonialismo sul pianeta Terra).
In fondo, la “messa a reddito della notte” è parte di quella “sussunzione al capitalismo di ogni cosa sulla Terra”, già convocata in altri scritti di Bukowski come pilastro marxiano dell’analisi: nel caso del cielo stellato, si chiede ora l’autore, “perché [si dovrebbe] cambiare passo, e direzione […]?”. Debitamente citato, risulta senza dubbio paradigmatico per questa impostazione analitica l’episodio del film Strane storie (1994) di Sandro Baldoni in cui il protagonista, Giovanni Reggio, è costretto a pagare la “bolletta dell’aria” per non morire di asfissia.
Le questioni in gioco richiamano anche un’altra tematica portante del lavoro di Bukowski, ossia le retoriche e le pratiche del decoro pubblico. Alla base dell’inquinamento luminoso vi è infatti lo sviluppo dell’illuminazione urbana – uno sviluppo che è stato motore, sin dalla sua prima introduzione, di “quell’artefatto altamente manipolabile” che è la cosiddetta “insicurezza percepita”, un sintagma che ha goduto e ancora gode di estrema visibilità mediatica, in funzione del paradigma securitario a tutt’oggi imperante.
Come la “teoria delle finestre rotte” (una finestra rotta richiamerà per emulazione altri atti di vandalismo o criminalità nella stessa zona) coniata da Kelling e Wilson in un famigerato articolo per The Atlantic nel 1982 e già analizzata da Bukowski nella Buona educazione degli oppressi, anche la presenza o l’assenza di illuminazione urbana agisce direttamente sulla percezione della paura, bypassando ogni legame effettivo con i fenomeni di tipo delinquenziale. A tal proposito, si ricordano giustamente alcune campagne politiche degli anni Novanta, come quelle di Gianni Pilo o del “sindaco sceriffo” di Treviso Giancarlo Gentilini, ma non si cita il caso forse più noto e ricco di implicazioni politiche, come l’utilizzo dell’omicidio di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto nel 1997, all’interno della campagna elettorale di Gianni Alemanno, poi diventato sindaco di Roma. Con questo, non si intendono certo negare le singole verità processuali, né le responsabilità criminali individuali; è invece possibile ribadire come un certo discorso pubblico, basato sulla retorica securitaria, porti alla strumentalizzazione elettorale delle paure e delle angosce circolanti nel corpo sociale, senza poi intervenire direttamente sui fattori che le influenzano direttamente, o le determinano.
Al di fuori dell’episodio specifico, Bukowski individua molto chiaramente il paradosso della “insicurezza percepita” nel caso dell’illuminazione urbana, riportando i risultati di uno studio, relativo alla città di Chicago, pubblicato nel 2021 sul sito del Dipartimento di Criminologia della University of Pennsylvania: in buona sostanza, “per evitare il buio, le potenziali vittime deviano verso strade più chiare, aumentando così le occasioni di pesca per chi ha intenzioni criminali”. È un circolo vizioso, e se la risposta più chiaramente securitaria non incide sulla portata né sulle tendenze generali dei fenomeni delinquenziali, nemmeno la risposta di orientamento genericamente progressista fornisce soluzioni concretamente praticabili. Alle politiche urbanistiche e culturali di gentrification, ideologicamente orientate a ristabilire il decoro di alcune zone urbane, Bukowski accosta il fenomeno della “ledification”, che produce “la sciocca illusione di salvaguardare l’ambiente, grazie al risparmio energetico garantito dai led, pur mantenendo identico il mondo tossico su cui i lampioni fanno luce”. E anche il modo tossico con cui i lampioni fanno luce, visto che l’inquinamento luminoso, proprio in funzione dell’adozione dei led, non ha fatto altro che aumentare, senza peraltro portare a un risparmio energetico significativo, se rapportato ad esempio al possibile incremento di efficienza dell’illuminazione già esistente.
Come si evince anche da questo passaggio, l’intreccio di questo agile volumetto con i precedenti scritti di Bukowski è serrato e altamente produttivo, aprendo la strada verso nuovi campi di indagine. È tuttavia anche una scelta, se ci si perdona il termine, “sintomatica” di una riflessione che – in funzione del principio adottato, ossia dell’infinita e progressiva sussunzione capitalista, ma anche di una situazione contingente, “post-pandemica”, di ridimensionamento e insieme trasformazione delle esperienze di movimento – spinge gradualmente alla collisione dell’analisi politica con i territori più classici della storia del pensiero e della filosofia. Fino, cioè, a quel gesto elementare che è lo sguardo contemplativo rivolto prima al cielo e poi alla terra, a ciò che può farci “tremare, riempiendoci d’interrogativi e allo stesso tempo avvolgendoci in un tutto che ci ricomprende, come fu dapprima”: un gesto fondamentale che, nella sua crescente divaricazione dalla possibilità di una pratica, è sempre più difficile poter immaginare.