Un uomo, la pelle scura e l’aspetto trasandato, tiene un orso alla catena. Legati l’uno all’altro, avvinghiati in scene di lotta fittizia, sdraiati per un meritato riposo dopo tanto errare, indissolubilmente stretti da un medesimo e faticoso destino. In Bulgaria gli orsi danzanti appartenevano alla tradizione zigana, a un modo di vita ormai scomparso. Una pratica barbara, poiché agli orsi veniva inserito un anello nel naso, la holka, venivano cavati i denti, venivano somministrati alcolici per renderli più docili agli ordini degli addestratori, i quali dal canto loro giuravano di amarli come membri della propria famiglia. Con la fine del comunismo e l’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea tale pratica cessa di essere legale.
Parte da qui Orsi danzanti, nel quale lo scrittore e giornalista Witold Szabłowski testimonia l’eclissi di un mondo con ammirevole, virtuosistico acume. Nella prima parte del volume testimonia lo smarrimento degli zingari di fronte al sequestro della loro fonte di sostentamento primaria. L’Europa civilizzata non può tollerare tali violenze nei confronti degli animali, che vengono trasferiti in un parco costruito appositamente per loro. Eppure “chi è stato schiavo per tutta la vita non ha chance di adattarsi alla libertà”.
Dopo anni di cattività, gli orsi stessi non ne vogliono sapere di comportarsi come animali selvatici, con enorme frustrazione dei loro liberatori. Il parco, con i suoi recinti elettrificati, è “un ibrido sospeso da qualche parte fra la libertà e la prigionia”. Capiamo a questo punto che la storia degli orsi è una metafora efficace dello smarrimento di intere popolazioni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, un vuoto le cui conseguenze risuonano ancora oggi con inaudita violenza. “La libertà è una cosa terribilmente complicata”, che comporta un alto grado di responsabilità. Per questo Szabłowski si confronta con nostalgici del comunismo, i quali rimpiangono la sicurezza di un lavoro certo e di un tetto sulla testa.
Nella seconda parte del libro l’orizzonte geografico si allarga oltre i confini della Bulgaria, a gran parte dei paesi ex sovietici. A Cuba, pur nell’imperante povertà, si rivendica un principio di uguaglianza altrove latitante. “I soldi cambiano le persone”, afferma il ballerino Osvaldo, e risulta davvero arduo dargli torto. In Albania le migliaia di bunker costruiti sotto il comunismo appaiono come anacronistiche rovine. In Estonia un abitante su tre è russofono, e sembra attendere il ritorno dell’URSS. L’integrazione dei russi, divenuti improvvisamente apolidi e costretti a imparare l’estone per poter lavorare, è un enorme problema. A Belgrado i turisti seguono un tour denominato “Pop-art Radovan” sulle orme di Karadžić, mentre parte della popolazione resta ostile all’Unione Europea in nome del nazionalismo serbo. Contrabbandieri fanno la spola fra Polonia e Ucraina, mentre l’integrazione europea di quest’ultima appare un miraggio osteggiato anche dal patriarcato moscovita, che stigmatizza la corruzione occidentale. Secondo Aleksander, un ex fuochista in pensione, Putin non lascerà mai andare l’Ucraina, parole profetiche alla luce dei fatti recenti. Szabłowski registra le voci più disparate evitando, da consumato giornalista, di fornire giudizi sommari. Ne risulta un affresco composito, che il lettore smaliziato dovrà decifrare. Ecco allora gli uomini seguire la grande danza macabra della storia, come orsi alla catena, guidati da un capriccioso padrone verso l’orlo periglioso dell’abisso.