Soltanto i buoni libri riescono a spostare la nostra conoscenza del mondo – nei termini in cui questa viene definita come “cultura”, nel senso più generale di “cultura umanistica” – e a smuovere verso nuove riflessioni e nuovi approdi. Questo è sicuramente il caso de Il turno di Grace, l’ultimo romanzo di William Wall, autore irlandese classe 1955 che in passato ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali ma che – fino almeno a questa pubblicazione, meritoriamente intrapresa dalla casa editrice Nutrimenti – era stato tradotto in italiano soltanto una volta, e per il côté poetico della sua produzione: Le notizie sono, del 2012, anche in questo caso per la traduzione di Adele D’Arcangelo, e per i tipi della cooperativa editoriale faentina Moby Dick, all’epoca retta, tra gli altri, dall’eccellente poeta e traduttore Giovanni Nadiani, scomparso cinque anni fa.
Il turno di Grace è, innanzitutto, un romanzo trino, e su almeno tre livelli: tre sorelle (Em, Grace e Jeannie), tre isole (Castle Island, al largo di Cork, l’isola di Wight e Procida) e tre età della vita (infanzia, giovinezza, età adulta). Il primo oggetto culturale a risultare dislocato da questa stratificazione e moltiplicazione è costituito dai noti versi di John Donne, “No man is an island entire of itself; every man / is a piece of the continent, a part of the main” (1624), che – nella loro accezione generalmente “umanistica” e specificamente mertoniana (facendo riferimento, cioè, all’omonimo saggio, No Man is an Island di Thomas Merton del 1955) – imporrebbero il superamento dei confini di ogni singolo spazio, tempo o personaggio nel nome della relazionalità costitutiva dell’umanità. Qui, invece, i confini sono costantemente ribaditi, e non soltanto dalle diverse geografie insulari nelle quali è ambientato il libro, all’interno di un movimento che porta alla luce una serie di memorie traumatiche che attraversano ancora, come lame, il presente.
Al tempo stesso, e a complemento della dislocazione della citazione più canonica, “nessun uomo è un libro”: la narrazione include anche due scrittori professionisti, un poeta e un autore di libri di viaggio, che non riescono a tradurre in parole la materia viva della loro esperienza senza travisarla o, peggio, farle violenza. Se l’egotismo dello scrittore che conferisce più valore alla propria opera letteraria che non alla propria vita e a quelle di chi lo circonda può forse apparire ai limiti del cliché – come si è sostenuto in alcune recensioni del libro pubblicate in Irlanda – si tratta anche, in ogni caso, di un ulteriore tassello nella descrizione della più ampia portata culturale del libro. Quale rifugio può offrire la letteratura, e la cultura umanistica più in generale, quando l’elaborazione letteraria è in primo luogo un’esibizione narcisistica, altri campi del sapere (dalla psicanalisi alla geologia, egualmente presenti nel libro) entrano in crisi e, d’altra, parte neanche la politica sembra offrire un appiglio concreto?
La storia delle tre isole e delle tre sorelle – nonché delle numinose figure maschili già citate e della madre, elemento-cardine della trama e al tempo stesso destinata a un isolamento tragico rispetto agli altri personaggi – inizia, infatti, “alla fine degli anni Sessanta, quando il mondo intero era impazzito simultaneamente per due forme incompatibili di idolatria: l’autosufficienza economica e la smania di consumo”. I personaggi sembrano inizialmente seguire la prima forma di idolatria, ma questa strada rivela presto i suoi limiti e le sue aporie, sprofondando non tanto verso il polo opposto, bensì verso un esito più chiaramente nichilistico come “l’anomia” che è individuata a chiare lettere come “una condizione del nostro tempo. Siamo avvelenati da immagini, un’infinita sinistra ricaduta di metafore, piene di propositi ma vuote di significato”.
La scrittura di William Wall, tuttavia, non si rassegna a questo nichilismo generalizzato; si propone, invece, come ultimo atto di opposizione, rappresentato da una narrazione asciutta e al tempo stesso ricca di aperture liriche – mai estetizzanti, però, allo scopo di evitare l’“avvelenamento da immagini” appena menzionato – e di illuminanti condensazioni aforistiche. La ricerca autoriale, in fondo, sembra essere quella di una grazia che Grace – vero nomen omen – può indicare, tirando le fila della narrazione insieme alla sorella Jeannie, ma non riesce fino in fondo a rappresentare; resta una ricerca incompiuta, ma ancora tutta da affrontare, sullo sfondo di quel crollo dell’“uomo nuovo” – altro nomen omen del libro è Tom Newman, uno dei due scrittori – con il quale ci siamo dovuti confrontare, a tutti i livelli della “cultura umanistica” o di quel che ne resta, negli ultimi decenni.