Si legge in William T. Vollmann, a critical companion, a cura di Christopher K. Coffman e Daniel Lukes, un breve intervento in cui Jonathan Franzen racconta la sua amicizia con Vollmann, amicizia che nel tempo si è rarefatta (oggi i due non si frequentano più a causa della distanza geografica): “Non a caso Bill [Vollmann] è uno dei grandi talenti della mia generazione. È iper-fecondo alla maniera di Dickens o Balzac, e occorreranno decenni per una sistemazione delle sue opere, ma già Storie dell’arcobaleno ha messo in chiaro che il paragone più appropriato è con Melville e Whitman: scrittori che, intraprendendo tentacolari nuovi mondi d’esperienza, avevano scarsi esempi letterari a far loro da guida e perciò confidavano soprattutto in se stessi, nel proprio istinto e intelligenza.” Nel medesimo ritratto Franzen scrive, a metà tra stupore e ammirazione, che l’amico si era procurato un tunnel carpale scrivendo dodici ore al giorno al computer, e che avendo deciso di scambiare con lui consigli di lettura scoprì che era in grado di leggere anche cinquecento pagine in un singolo pomeriggio, ricordando tutto grazie a una memoria quasi fotografica. Quando, infine, decisero di leggere i manoscritti uno dell’altro per un primo parere, Franzen cominciò a ricevere ogni nove mesi un enorme plico di carta.
Abbiamo già scritto nella recensione del precedente I poveri che la prolificità di Vollmann è proverbiale, e concordo con il suo amico Franzen che la sua eredità letteraria sarà un gigantesco monumento al postmoderno americano nel passaggio tra la generazione di Thomas Pynchon e la successiva. Questo Storie dell’arcobaleno (Rainbow stories, 1989), che arricchisce i titoli dell’autore nel catalogo Minimum Fax, è una riproposizione della traduzione di Cristiana Mennella per l’edizione Fanucci del 2001, interamente rivista per l’occasione: opera fondamentale nella bibliografia dello scrittore californiano, che si mantiene sul confine incerto tra il réportage e la fiction, e mostra la consueta attenzione empatica per gli ultimi, i marginali della società – una capacità di sollecitare nel lettore un’umanità scevra sia da pietà che da giudizio morale.
Il volume contiene tredici testi di lunghezza variabile, tra la short story e il romanzo breve; se di alcuni è possibile definire, a una certa approssimazione, la natura, altri sono velati da quella cortina di nebbia che l’autore è così bravo a sollevare: non è importante stabilire se una storia sia vera dal momento che è plausibile oltre che bella. Vollmann infatti scrive racconti come se scrivesse un saggio, e viceversa; sei convinto di leggere il resoconto di prima mano di un periodo trascorso tra i naziskin di San Francisco, e ti accorgi che la figura del narratore, che sembra raccontare fatti visti con i suoi occhi, ha qualcosa di contraffatto – probabilmente Vollmann parte da un’esperienza diretta per comporre una storia coerente rubando fatti qua e là, magari racconti di seconda mano, tirando tuttavia fuori una storia più vera del vero. Abbiamo visto lo stesso metodo all’opera in I poveri, più spostato verso il polo réportage, e in Storie della farfalla, dove il cursore era invece mosso verso il polo opposto, la fiction.
Ciascun testo di questa antologia ha un colore nel titolo, e questo è forse l’unico fil rouge di una raccolta eterogenea per temi e atmosfere, eppure straordinariamente compatta come stile. Inutile cercare nei racconti una trama strutturata con un inizio e una fine. Ci sono pennellate d’eventi, accumulati come in quadro impressionista, in cui Vollmann ricorre a un narratore non immerso e attinge ampiamente allo spettro dei colori che non si limita a evocare nel titolo: è una caratteristica della sua scrittura quella di utilizzare elementi propri del senso della vista per suscitare un’esperienza decisamente poco “visuale”, anzi estremamente letteraria.
Più semplice è stabilire la natura di testi come Arancione scintillante, una fantasia surreale su un episodio della bibbia, o come il magnifico Lo zucchero giallo, ambientato (con precise fonti letterarie) nell’India sotto la dominazione moghul. Magnifico e terribile è Nel blu profondo, il testo più lungo, storia di un assassino seriale che si accanisce sugli homeless; altri testi sono invece racconti d’amore narrati con misura e sentimento: a questo l’autore ci ha spesso abituati, con Storie della farfalla per esempio. Possiamo leggere, in Capelli violetti persino una fantasia surreale sul pensiero di Heidegger.
Desta ammirazione il modo in cui Vollmann si destreggia tra i generi e le storie senza che il suo caratteristico stile ne risenta minimamente. La lettura di Storie dell’arcobaleno è davvero un’esperienza intellettuale di alto livello.