La prolificità di William T. Vollmann è proverbiale: dal suo esordio nella fiction nel 1987 fino a oggi ha firmato otto romanzi “puri” (con Vollmann non è sempre facile distinguere tra reportage, storia e narrativa), più altri due in via di pubblicazione, tutti di dimensioni ragguardevoli, come pure le quattro antologie di racconti e i quattordici altri titoli non semplici da catalogare, in bilico tra esperienza personale, diari di viaggio, saggistica e riflessioni filosofiche. Tra questi ultimi l’immenso Rising up and rising down in sette volumi, per un totale di 3352 pagine, sottotitolo “qualche pensiero su violenza, libertà e strumenti urgenti”.
I poveri si inserisce nella stessa tradizione, una corrente sotterranea che attraversa tutta la produzione dello scrittore californiano: una dolorosa, faticosa analisi di una situazione reale, che in questo caso è la povertà in ogni angolo del pianeta, dagli Usa all’Asia profonda, senza retorica, senza compiacimento né condanna, seguita dal tentativo di proporre una soluzione. Impresa meritevole e autolesionista, dato che fin da quando parte per l’Afghanistan all’età di 23 anni per documentare quale fazione della resistenza antisovietica meriti l’appoggio della comunità internazionale, Vollmann si è sempre invischiato in storie di marginalità sociale. Pensiamo alla cosiddetta trilogia della prostituzione (in Italia sono apparsi solo i primi due, Puttane per Gloria e Storie della farfalla), o a Imperial, reportage da una valle californiana ai confini con il Messico (1350 pagine), frutto di frequentazioni continue in ambienti ai limiti della società.
I poveri è il risultato di anni di lavoro e di viaggi, tra il 1992 e il 2005; non so se Vollmann sia partito con il preciso intento di scrivere questo libro, oppure se l’intenzione si sia precisata con il tempo e l’accumulo di materiale. Il testo non ha assolutamente l’aspetto di un trattato “sulla povertà; benché richiami esplicitamente Sia lode ora a uomini di fama, il reportage fotografico di James Agee e Walker Evans sulla miseria negli Usa della Grande depressione, non c’è sistematicità né geografica né tematica. La discesa nell’abisso è un viaggio attraverso la memoria dell’autore, che segue un discorso molto personale, per trascinare il lettore sempre più a fondo. Muovendosi tra continenti e bassifondi (Thailandia, Giappone, Messico, Colombia, Usa, Yemen, Pakistan, Vietnam, Cina, Russia, Filippine, Congo e poi ancora, ancora, ancora), cercando il contatto, con l’ausilio di interpreti reclutati sul posto, con invisibili abitanti di baraccopoli, slum, quartieri degradati, intere città di cartone e lamiera costruire alla periferia delle metropoli, Vollmann affronta i suoi protagonisti ripetendo, a un certo punto della conversazione, la stessa domanda: “Perché sei povero?” E la risposta è quasi sempre sorprendente. Pressoché nessuno incolpa una struttura economica ingiusta, o la feroce separazione di classe; alcuni si stupiscono di essere considerati poveri, quasi tutti dimostrano una fatalità che non chiama in causa la fortuna, bensì una sorta di ordine cosmico immutabile che per i buddisti ha il nome di ruota del karma. A molti appare una domanda senza senso; pochi dichiarano di odiare “i ricchi” (tra i quali Vollmann annovera per onestà anche se stesso, dal momento che ha bisogno, per mantenere il proprio tenore di vita, di cento dollari al giorno), quasi nessuno ritiene che questi abbiano dei doveri nei confronti dei meno fortunati.
Risposta sorprendente, che nulla ha a che vedere con il fatto che molti di loro tentino di rubare qualcosa a chi è meno povero di loro, perché si limitano per disperazione a tentare di prendere dove ce n’è, e non si farebbero scrupolo a derubarsi l’un l’altro. Questo approccio realistico e disilluso al problema, che mi ha ricordato l’atteggiamento con cui un intellettuale marxista come Luis Buñuel affrontò la stessa materia in film come Viridiana, depura il libro da qualsiasi retorica buonista — il che tuttavia non impedisce all’autore di dimostrare un’empatia fortissima per i suoi personaggi, che ci trasmette con lucida indignazione anche senza esplicitarla. Brevissimo è il tentativo di trovare una soluzione, che si limita a ripetere il programma dell’Onu per cancellare la povertà: “più aiuti, distribuiti meglio”; dietro questo, che non è un vuoto slogan, ci stanno i diritti umani, la parità tra i sessi, l’istruzione, l’educazione ambientale, la cancellazione del debito, in una parola una “globalizzazione regolata” che mantenga lo spazio democratico.
In appendice, 128 pagine di fotografie su carta patinata: i ritratti rubati ai protagonisti di questo libro, ai quali Vollmann offre anche la modesta dignità di una vita riassunta in un’immagine in bianco e nero.