William S. Burroughs / Il virus della parola e altro

William S. Burroughs, La calcolatrice meccanica, tr. di Andrew Tanzi, Adelphi, pp. 305, euro 24,00 stampa, euro 12,99 epub

Spesso ci si chiede se William S. Burroughs non sia uno degli autori più sopravvalutati del ’900. Anche la discontinuità inquietante di questa raccolta di saggi lo darebbe da pensare. Miscellanea di scritti pubblicati su riviste e periodici prevalentemente per questioni alimentari – il nome Burroughs aveva già fatto scalpore e veniva richiesto sulla stampa e lautamente retribuito qualunque sciocchezza scrivesse – presenta accanto a pagine piene di parole buttate a caso (come giustamente disse Truman Capote a proposito di Kerouac, ma il concetto vale più o meno per tutta la cosiddetta Beat Generation: «Quello non è scrivere, è solo battere a macchina – That’s not writing, that’s just typing»), anche alcuni testi di qualche interesse  dove lo scrittore però ricicla sempre, più o meno, le stesse idee, le stesse citazioni e le stesse ossessioni: siano le ultime righe de Le nevi del Kilimangiaro, unico racconto di Hemingway che sembra apprezzare, (che ritornano identiche almeno quattro volte in quattro testi diversi), i continui rimandi alla semantica generale di Alfred Korzybski (la base teorica a cui ricorse l’ex scrittore di fantascienza Ron Hubbard per edificare il suo culto – prima Dianetics e poi Scientology – di cui Burroughs fu adepto per vari anni), qualche omaggio a Conrad e al Gatsby di Fitzgerald, la pratica del cut-up dell’amico e sodale Brion Gysin, le teorie sul sogno di Esperimento col tempo (1924) di John Dunne, e poco altro, si ha proprio la netta impressione che i riferimenti culturali di Burroughs fossero piuttosto ripetitivi e limitati.

Congetture strampalate e complottiste abbondano ovunque senza mai l’ombra di una minima fonte scientifica attendibile ma almeno abbandonandosi spesso a derive visionarie talvolta suggestive che ci ricordano certi deliri di The Naked Lunch o di Nova Express. Restano in mente soprattutto la ricorrente teoria della parola intesa come virus, forse la concezione più intrigante del pensiero burroughsiano, come anche il curioso testo sulle presunte voci “dell’aldilà” registrate su nastro dal parapsicologo lettone Konstantin Raudive, la costruzione di una scatola di orgoni secondo le indicazioni dello psicanalista eretico Wilhelm Reich (evidentemente le pseudoscienze affascinavano molto lo scrittore) o la tesi conclusiva e apodittica (eppure assai vaga, come tutto) di numerosi pezzi, cioè che dobbiamo prepararci per l’esplorazione dello spazio e sembra intendersi non tanto l’inner space in stile Ballard ma proprio lo spazio cosmico. Non si sa bene con quali astronavi o se semplicemente col pensiero. Pare di ascoltare certa musica underground a lui contemporanea, che so, Space is the Place di Sun Ra e la sua Arkestra, o Blows Against the Empire degli ex Jefferson Airplane che da poco avevano fatto l’upgrade a Jefferson Starship e cantavano di Hijack The Starship, vascello spaziale che avrebbe condotto legioni di giovani ribelli via da questo pianeta corrotto e condannato all’autodistruzione verso un orizzonte extraterrestre fatto di free mind, free body, free dope, free music. Un bel sogno, ahimè, amaramente tramontato: ma forse Burroughs non ha fatto in tempo a rendersene conto.

Burroughs parla anche di vari colleghi, quanto a proposito non saprei, ma dal momento che molti pezzi erano le tracce delle sue lezioni di creative writing e letteratura al City College di New York, si presume un minimo di professionalità: Hemingway (soprattutto Le nevi del Kilimangiaro), Fitzgerald (Gatsby), Beckett in rapporto a Proust (mah!); Graham Greene; infine Somerset Maugham. Quello che maltratta di più, ancora più di Greene, è proprio Maugham, a cui oppone scrittori di coraggio – “scrittori per l’era spaziale”, dice – come Genet o Conrad, Maugham no. La scrittura di Maugham è frutto, secondo Burroughs, di un patto col diavolo: «il diavolo non può fare di una persona uno scrittore di qualità. Ma può farne uno scrittore famoso, uno scrittore di successo, uno scrittore ricco. E da quel punto di vista Maugham ottenne tutto il valore della sua anima…». Giusto. Ma siamo sicuri che questa spietata analisi non possa applicarsi anche, almeno un po’, allo stesso autore che l’ha formulata? Non ha dichiarato lo stesso Burroughs di essersi sottoposto in tarda età a un rito purificatore dei nativi americani per liberarsi dalla possessione di un demone?