Sulla quarta di copertina di questo volumone che ha accompagnato la mia estate, c’è un quote di Jonathan Franzen che dice: “Questo romanzo è come un enorme dipinto, che ritrae il paesaggio della New York moderna: popolata da centinaia di piccoli personaggi, energici anche se spacciati, come nei pannelli di Bruegel o di Bosch.”
Ed è esattamente così. Una volta chiuso il romanzo, l’impressione che resta è l’affollamento di piccole figure, ciascuna ritratta mirabilmente, concentrata in un gesto peculiare e caratterizzante. Alle volte siamo nel grottesco fantastico di Bosch, altre nel realismo quotidiano di Bruegel. Ma sempre i personaggi sono tantissimi, si sovrappongono, si incontrano e scontrano, si cercano, si perdono, si fanno eco. Sembrano scomparire e ricomparire secondo un piano o un disegno che non viene mai dichiarato, che forse si scoprirà alla fine o forse no. È tutto fluido e mutevole, ogni pagina non si sa se è il seguito di quella precedente o qualcosa di nuovo. È davvero come stare a New York, o nell’immagine che conserviamo di New York: un brulichio di persone, un approdo per chiunque sia in cerca di qualcosa, un brusio costante e continuo di voci che hanno bisogno di dire e raccontare più che di ascoltare, una congerie di stranezze, come se ognuno avesse scelto il suo tratto più bizzarro e gli avesse dato la libertà di esprimersi senza freni. Ognuno persegue un suo disegno di vita che, come ricorda Franzen, è probabilmente destinato a fallire. Ma non è che valga la pena fare le cose solo quando hanno successo, e soprattutto nella vita, una vita intera, che cos’è il successo e che cos’è il fallimento?
E poi c’è quel titolo, Le perizie. Parola che ricorda l’arte, compresa quella di distinguere l’opera autentica dalla sua imitazione, e le assicurazioni, con quegli uomini in giacca e cravatta che verificano se il danno che avete denunciato corrisponde alla realtà e come quantificarlo. Nella ridda di uomini e donne che vivono nei salotti fumosi e affollati in cui si ritrovano, nei bar semibui, nella metropolitana sferragliante, il vero e il falso non sono così facili da distinguere. Sembrano vere le banconote del signor Sinisterra, distribuite con troppa generosità, e sembrano veri i suoi documenti, finché non li si controlla. Sembra autentico il braccio al collo di Otto Pivner, ferito in una guerriglia a cui non ha mai partecipato, e sembra conclusa la sua opera teatrale solo immaginata. E quanto possono essere vere le critiche di Crémer, visto che se le fa pagare, e con soldi veri?
Ma soprattutto quanto sono veri i quadri di Wyatt Gwyan? È senza dubbio un pittore, e ha talento, anche se forse non abbastanza. Quando incontra il mercante d’arte Recktall, ricchissimo di denaro, clienti, verve e idee e totalmente privo di scrupoli, Wyatt Gwyan sigilla con lui un patto diabolico: dipingerà dei quadri nel più fedele e perfetto stile fiammingo, li invecchierà e consumerà e rovinerà il necessario con una chimica sapiente, e insieme si inventeranno di averli ritrovati, nessuno sapeva che esistessero ma loro li hanno trovati. E li venderanno ai collezionisti ingenui e ignoranti, che non desiderano altro che possedere un’opera esclusiva e pagarla a peso d’oro. Nessuna perizia ne potrà scoprire l’origine e il lavoro. Del resto, come si fa a sapere quanti quadri ha davvero dipinto, diciamo Van Eyck? Che cosa ci è rimasto davvero, che testimoni, che provi quel che è stato fatto 700 anni fa?
Ma ecco che, se nessuna perizia potrà mai decretare che quel quadro è un falso, non ci sarà nessuno che riconoscerà il talento del falsario. E quindi il bisogno del riconoscimento, insieme a quello dell’autenticità e della verità, l’ansia della confessione, rodono l’animo di Wyatt Gwyan, che alla fine decide di partire per la Spagna, sulla tomba della madre che non ha praticamente conosciuto, dove forse ci sarà una rivelazione, dove verrà suonata un’opera mai ascoltata prima, dove forse si compirà un riscatto, un miracolo, o nulla.
Intanto tra le pagine, ci si chiede che valore ha qualcosa che non è autentico? Che cosa e chi garantisce l’autenticità? O anche, non stiamo parlando di fiction? Forse che la finzione di un romanzo non è reale? Lo è eccome, lo è nella sua consistenza di carta, il peso di 1120 pagine stampate, nel caso del romanzo di Gaddis. Ma lo è anche quando è solo nella nostra memoria, nella nostra percezione, nel racconto che ne possiamo fare a un amico, oppure qui sulle pagine di “Pulp Magazine”. E un quadro? Rappresenta il reale che c’è nell’animo dell’artista, o il suo sguardo sul mondo, per cui forse non è finzione, visto che il mondo esiste solo se qualcuno lo guarda. Insomma le domande sono tante e sì, sono tutte senza risposta.
Né, d’altra parte, a Gaddis interessa dare una risposta. La sua scrittura ricorda anch’essa i quadri di Bruegel e Bosch, ricca e poliedrica, piena di riferimenti biblici e religiosi oltre che letterari e musicali, e di scarti improvvisi da una voce a un’altra, incurante del tempo e del luogo e della loro presunta unità. Ci sono frasi così perfette, così speciali, così assolute che verrebbe voglia di fermarsi a trascriverle. Ma invece si va avanti, trascinati da una narrazione che non si ferma neppure un istante e che corre, si ferma, torna indietro, riparte senza preoccuparsi se noi lettori siamo in grado di stargli dietro oppure no.
Per quanto mi riguarda, sì, mi sono stancata diverse volte. Mi sono fermata e mi sono detta ok, per oggi basta. Ma una volta riposata tornavo a leggerlo. Non solo perché sapevo che dovevo recensirlo. Anche perché c’era come un filo che si era creato tra me e il libro, e ogni tanto tirava. Non so perché, ma penso che Gaddis lo sapesse, di essere faticoso e irresistibile al tempo stesso. Penso che gli sia piaciuto sapere di esserlo. E mi ha fatto venire in mente L’uomo senza qualità di Robert Musil, una lettura che da ragazza non sono riuscita a fare e che ho completato da grande, con questo senso di piacere e dovere, di riluttanza e attrazione, sentimenti contrastanti e inestricabili. Certo è che Le perizie è un romanzo come nessun altro.