“Seduta sul bordo della strada, guardando il carro che viene su per la salita verso di lei, Lena pensa: “Arrivata fino a qui dall’Alabama: una bella distanza”.
Inizia così Luce d’Agosto (William Faulkner, a cura di Mario Materassi, Adelphi 2013), uno dei romanzi ritenuti meno criptici tra quelli di Faulkner, scritto nel 1932, quando già il successo di Santuario (1931; Adelphi, 2016) e ancor prima – tra gli altri – di L’urlo e il furore (1929; Einaudi, 2014) e Mentre morivo (1930; Adelphi, 2017) lo avevano definitivamente inscritto nella storia della grande letteratura americana.
Luce d’agosto narra le vicende di Lena, giovane donna dall’aura serena e irriducibile, che dall’Alabama arriva fino in Mississippi alla ricerca del suo amore, il padre del bambino che porta in grembo. Lucas Burch le aveva promesso di allontanarsi solo per trovare un buon posto di lavoro, per poi tornare a prenderla o mandarla a chiamare, ma poi non ha più dato notizie di sé. Lena non ha un solo dubbio, “non è potuto venire a prendermi come aveva intenzione di fare. Io lo so, io e lui non c’era bisogno di parlare di promesse”. Scappa dalla finestra della casa del fratello: “una casa fatta di tronchi, tre stanze e un corridoio, niente reti contro le zanzare, in una stanza con una lampada a cherosene e tutt’intorno un vortice di insetti, il pavimento nudo reso liscio come argento vecchio dai piedi nudi” e chiede a chi incontra, sale sui carri che le danno un passaggio. Il viaggio è fatto del secco sbatacchiare dei carri su strade polverose, di orizzonti opachi, sonnolenti e tremuli di calore, di interminabili pomeriggi tra sterpaglie bruciate e silenzi immobili, rotti solo dallo zoccolio lento e ipnotico dei muli.
“Lucas Burch? Non so. Non so di nessuno che si chiami così, da queste parti”, è la risposta che le dà la maggior parte delle persone che incontra lungo la via.
Fin quando Lena giunge alla piccola cittadina di Jefferson, dove forse alla segheria lavora un uomo con quel nome, Lucas Burch, o con un nome simile. Qui troverà una comunità in subbuglio, per un fatto di sangue di cui è accusato un “negro” che pare un bianco. Dell’uomo arrestato si racconta a ritroso, finché non diventa un personaggio chiave del romanzo; silenzioso, oscuro, delineato magistralmente nei suoi contrasti di vittima e carnefice, agghiacciante persino nella sottomissione: “Christmas piantava con forza la pala nella segatura, lento e regolare, come se stesse facendo a pezzi un serpente sepolto […] continuava a lavorare in silenzio, furioso, instancabile.”
Quest’uomo ha una costante “inclinazione arrogante e malevola sul viso immobile”, e una dolorosa infanzia da orfano alle spalle; attorno a lui si addensa una nube di crescenti dubbi riguardo le sue origini: forse è un meticcio, forse, nonostante la pelle chiara, scorre in lui sangue nero. Questo diverrà il suo marchio, una colpa atavica, una non appartenenza che ne anticipa quasi inesorabilmente lo smarrimento feroce, l’imprevedibilità ferina, l’ineluttabile violenza.
Attorno ai personaggi principali ruota una giostra sognante e selvaggia di figure archetipiche, ognuna con le sue storie brutali e toccanti, le sue miserie. Le strade violente e assolate di una cittadina del sud, intrisa di moralismo razzista e bigotto, di un violento fanatismo religioso, fanno da sfondo a contrabbandieri d’alcol, prostitute, predicatori perduti, sceriffi, taglialegna, vecchi dalle ossa di carta resi pazzi e sanguinari dall’isteria razziale, personaggi misteriosi e dannati dove niente e nessuno è ciò che sembra: l’uomo che verrà indicato a Lena come la persona che sta cercando ne è solo un alter ego benevolo, al quale la conduce una ingannevole quasi-omonimia; il vero seduttore è cangiante, inafferrabile, accanito nella sua bassezza; l’amore e l’amicizia compaiono solo come tentativi sbiaditi, o esaltati al limite della ferocia, sempre in bilico con l’odio e la vendetta, così come il bene e il male sono amalgamati in una visione tragica, dove il singolo è solo il misero manifestarsi del necessario.
Alcune figure femminili – Lena tra tutte, ma anche la madre adottiva di Christmas, la stessa Joanna Burden con la sua filantropia suicida – hanno un’aura di ingenua solidità, una tenacia quasi bovina nel tener fede alla fiducia, all’accudimento. Donne che attraversano un mondo di uomini duri, guasti, oscuri, donne forti di una femminile pacata ostinazione, una carità ottusa; una dannazione all’amore ostinato, indifferente alla realtà, che pare saltare il raziocinio, indotto da una pura biologia animale: “Il suo viso [di Lena n.d.r.] è calmo come la pietra, ma non duro. La sua ostinazione ha un che di morbido, una sorte di luce interna di calma, tranquilla irragionevolezza e di distacco.”
A volte desolato, scarno, fatalista come Joseph Roth, a volte sontuoso come Herman Melville, Faulkner ci canta di antieroi tragici, segnati dalla povertà e dal disinganno, vittime della provincia asfittica del grande sud, in cui la guerra di secessione ha lasciato il suo graffio solo a esacerbare i conflitti, senza portare libertà e respiro.
La narrazione di Faulkner è priva di moralismi, e la voce narrante è frammentata, richiama una oralità epica e antica, in cui le vicende dei personaggi si aggrovigliano e prendono forma da numerosi cantori, fino a mettere in scena una rappresentazione corale, complessa, dove presente e passato, bene e male, verità e menzogna sono ormai indistinguibili e non richiedono alcuna catalogazione né giudizio.
“Ma c’è ben altro, in cielo e anche in terra, oltre alla verità”, pensa il vecchio pastore smarrito, enorme e spettrale, parafrasando Amleto nell’ultimo crepuscolo.
In Luce d’agosto c’è uno stile secco e crepitante, con descrizioni che tagliano il fiato e magistrali salti temporali fatti di anticipazioni e flashback, a delineare questioni aperte e inestinguibili, come il rapporto tra universo maschile e femminile, la paura della diversità che diviene sospetto, maldicenza, efferatezza; i temi del razzismo, della coercizione, del furore religioso.
Con la costruzione di scenari memorabili Faulkner chiede assoluzione allo stralcio cupo e sofferente di umanità che rappresenta, investendola proprio di quella luce che promette nel titolo: “Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica”.
Così disse lo scrittore, a proposito del titolo del romanzo.
Ed è tra i riverberi acerbi e abbaglianti di quei bagliori implacabili che si muovono personaggi eterni, semidei sciagurati. Soldati perduti, superbi e miserabili, che combattono una guerra immemore, circolare, racchiusi in una piega del tempo, che ricorda l’assolata piana della guerra di Troia.