Michele Masiero, Mister No Revolution. Vietnam, Bonelli, pp. 144, euro 21,00 stampa
Assieme a Tex Willer, Zagor e Dylan Dog, Mister No è senza dubbio uno dei nomi di punta della casa editrice Bonelli. Figlio di Guido Nolitta (nom de plume di Sergio Bonelli) proprio come Zagor e gemma del formato bonellide, Mister No esce per la prima volta nel 1975 e la sua pubblicazione seriale si interrompe solo nel 2006. Sin dalla prima uscita, Mister No si distacca da alcune delle convenzioni bonelliane più tipiche: per esempio, in termini di coordinate spazio-temporali, è il primo fumetto bonelliano a non essere ambientato nel West bensì in Amazzonia, nel secondo dopoguerra; inoltre raffigura un antieroe escapista, battistrada per altri personaggi del calibro di Dylan Dog o Nathan Never, in continua lotta contro l’oppressione dei più deboli, ma al contempo vittima di ben note debolezze umane come l’alcol.
Questi e vari altri aspetti hanno contribuito a rendere Mister No un’eccezione all’interno della tradizione bonelliana, anche grazie ad ambientazioni geograficamente più lontane e cronologicamente più vicine al lettore contemporaneo. Questi presupposti hanno posizionato Jerry Drake (alias Mister No) all’interno di un mondo pieno di angoli ciechi e spazi immaginari il cui riempimento è affidato al lettore. A partire da tale canovaccio compositivo nasce il progetto Mister No Revolution, pensato e scritto da Michele Masiero (direttore editoriale della Bonelli) e illustrato da Matteo Cremona. Si tratta di una rivisitazione di Mister No ambientata venticinque anni dopo la genesi originaria del personaggio di Nolitta. Il progetto è stato definito una “What-if narrative”, in altre parole una forma di “speculative fiction” che immagina come una storia possa essere trasformata al variare di almeno uno degli elementi narrativi. Si tratta di un espediente molto utilizzato nel multiverso fumettistico, sia dalla Marvel sia dalla DC Comics, di cui si osservano però alcuni interessanti esempi anche in ambito letterario: vengono in mente L’uomo nell’alto castello (1962) di Philip K. Dick (ma più noto in Italia come La svastica sul Sole), e più di recente Complotto contro l’America (2004) di Philip Roth o Il sindacato dei poliziotti yiddish (2007) di Michael Chabon. Al di là del fatto che proponga la reinvenzione di un lavoro di fiction e non di una narrazione storica, in Mister No revolution il discorso è diverso in quanto non è presente un evento e punto di svolta capace di produrre una storia completamente diversa; si verifica invece il contrario: i passaggi più significativi della genesi di Mister No vengono mantenuti e traslati nel tempo come all’interno di un palinsesto, determinando una storia, per quanto diversa, molto somigliante all’originale.
Nello specifico, il nuovo contesto si dipana su due fili narrativi a montaggio alternato, il primo è ambientato nella New York degli anni Sessanta, il secondo in Vietnam, nel bel mezzo della guerra a cui Jerry Drake prende parte. In entrambi i casi la ricostruzione storica e culturale premia la traslazione spazio-temporale proposta deagli autori, i quali attingono a piene mani dall’immaginario controcultura degli anni Sessanta (apprezzabile il garbato riferimento ai Velvet Underground & Nico), presentando al contempo, per quello che riguarda la Guerra del Vietnam, un vasto repertorio di tropi e scelte narrative che richiamano inevitabilmente al rigoglioso panorama cinematografico prodotto a partire da Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola e Platoon di Oliver Stone (1986); l’origine stessa del soprannome Mister No nella nuova genesi avviene in un piccolo campo di prigionia vietcong (e non giapponese) che odora di omaggio alla celebre sequenza di Il cacciatore (1978) di Michael Cimino.
In questo senso, l’apporto di Mister No revolution alla rappresentazione della Guerra del Vietnam travalica i confini nazionali. Costituisce infatti un tassello importante nella composizione di un mosaico complesso e difficile da rappresentare, soprattutto nella produzione fumettistica statunitense, in cui di fatto le graphic narratives compongono un disegno da sempre incompleto a causa della scomoda percezione del conflitto nella loro cultura. Se opere famose come The Punisher (1974) o Watchmen (1986) nascondono la guerra “in plain sight”, anche nei casi più autorevoli di war comics sul tema, come The ‘Nam. Lettere dal fronte (1986-1993), scritto da Doug Murray e illustrato da Michael Golden e Wayne Valsant, si osserva che la raffigurazione della guerra è viziata dal Comics Code Authority (CCA). Ne conseguono fumetti che tendono a glissare sugli episodi più crudi dell’intervento americano nella penisola indocinese, o che ne sfumano contenuti e toni. Mister No revolution offre invece una versione estremamente realistica, seppur finzionale, della guerra, affrontando senza inibizioni temi controversi come la violenza, il razzismo, gli abusi sessuali e la droga. Ne emerge un lavoro intenso, crudo e disincantato, che costringe il lettore a una visione della guerra non mediata da filtri etici o propagandistici, bensì rappresentata per l’inferno che è.
Proprio come il cinema e i fumetti western “all’italiana” sono stati in grado di raffigurare una faccia dell’America a scapito di qualsiasi forma di politica identitaria (al punto che la Epicenter Comics sta correntemente traducendo i fumetti come Tex e Magico Vento in inglese), anche il primo capitolo di Mister No revolution pare poter offrire un notevole contributo alla raffigurazione degli Stati Uniti a partire da una prospettiva più esterna.