In una recente videointervista concessa a Matteo de Giuli, Werner Herzog sostiene, fra le molte altre cose, che i suoi libri sopravviveranno ai suoi film. La questione non è affatto scontata. Se l’uomo Herzog infatti è da sempre e indubitabilmente personaggio per più aspetti iconico e leggendario, l’artista ha alternato invece momenti di grazia assoluta – in cui ha prodotto capolavori indimenticabili – ad altri di stasi e inefficacia in cui non si è sollevato al di sopra della mediocrità. Fra i primi includerei quasi tutta la sua filmografia giovanile – difficile che non gli sopravvivano film epocali come Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970) o Aguirre, furore di Dio (1972), Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) o Fata Morgana (1971), L’enigma di Kaspar Hauser (1974), Stroszek (1976), Woyzeck (1979), Nosferatu (1979) o Fitzcarraldo (1982) – assai meno memorabili sono però Dove sognano le formiche verdi (1984), Cobra verde (1987) o Grido di pietra (1991); decisamente dimenticabili infine, Invincible (2001), Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans (2009), My Son, My Son, What Have You Done (2009) o Salt and Fire (2016).
Fra i libri, due dei quali in forma diaristica e tutti di grande fascino per stile e contenuti, aspira invece all’immortalità soprattutto il primo, Sentieri nel ghiaccio (1978), diario di un rimbaudiano Winterreise: il giovane Werner si impone di raggiungere a piedi Parigi da Monaco di Baviera, nel cuore dell’inverno, sperando che il viaggio/pellegrinaggio – che acquista l’intenzione mistica e sacrificale di un voto – salvi la vita a Lotte Eisner, critica cinematografica tedesca ottantenne, gravemente ammalata in un ospedale parigino: l’impresa sarà compiuta con successo e otterrà l’effetto voluto, la guarigione dell’anziana signora.
Difficile negare comunque che il cineasta bavarese sembri negli ultimi anni afflitto da un progressivo disinteresse verso la fiction, con film irrisolti e spesso anonimi, quasi fatti per forza e lontani dal tipico e icastico stile herzoghiano originario, mentre il suo cinema documentario – sappiamo che questa distinzione fra fiction e documentario irrita Herzog, ma è a questo punto inevitabile farla, considerati i risultati sempre più diversi nel tempo – resta invece di altissimo livello per profondità e riconoscibilità: ricordo, fra i molti, solo i miei preferiti: Apocalisse nel deserto (1992), The White Diamond (2004), Grizzly Man (2005), Encounters at the End of the World (2007), Cave of Forgotten Dreams (2010), Into the Inferno (2016). È in ogni caso evidente che sia l’attività letteraria, al momento, a prevalere su tutti gli altri fra gli interessi creativi del Werner contemporaneo, un ottantenne in splendida forma fisica: al lontano e fulminante esordio di Sentieri nel ghiaccio, sono infatti seguiti vari altri volumi come La conquista dell’inutile (2007) – diario tenuto durante gli estenuanti, terribili ed esaltanti, giorni della produzione di Fitzcarraldo, nel cuore di tenebra della foresta amazzonica, poi rimosso e sepolto per decenni in un cassetto per essere finalmente riletto, revisionato e pubblicato – Il crepuscolo del mondo (2021), cronaca degli incontri avuti con Hiroo Onoda, il tenente giapponese che per trent’anni visse nascondendosi nella foresta tropicale dell’isola di Lubang rifiutando la resa alle forze alleate vincitrici, e infine questa recente autobiografia che, si badi bene, porta lo stesso titolo della versione originale del film che da noi si intitola L’enigma di Kaspar Hauser: Ognuno per sé e Dio contro tutti. Un rimando, certo non casuale, fra Werner Herzog e Kaspar Hauser, il ragazzo selvaggio del Romanticismo tedesco: aenigma sui temporis. Ignota nativitas, occulta mors, come è scritto sulla sua lapide a Norimberga.
A differenza di Kaspar, Werner può raccontare in dettaglio la storia della sua famiglia risalendo ai nonni, Elisabeth e Dietrich, archeologo lui, che scavò nell’isola greca di Kos ritrovando un complesso di templi (in suo onore il nipote girerà proprio lì il suo primo lungometraggio, Segni di vita, nel 1967) e ai genitori, Ella e Rudolf, entrambi biologi, simpatizzanti nazisti negli anni ’30, poi denazificati dopo la guerra, assente e poco amato il padre, molto vicina invece la madre. Werner parla con affetto dei fratelli, spesso coinvolti a vario titolo nelle sue avventure cinematografiche, compresi i fratellastri avuti dal padre con altre donne e, con ammirevole discrezione, anche dei suoi amori – le tre mogli, Martje, Christine e Lena, l’attrice Eva Mattes, protagonista di Stroszek e di Woyzeck, dalla quale, dopo una breve e intensa relazione, ha avuto una figlia – e dei due altri figli che portano il suo nome. Evoca la sua infanzia selvaggia, quando per sfuggire agli ultimi terribili anni di guerra, il ramo materno della famiglia si rifugia in un villaggio di alta montagna, Sachrang, al confine tra Baviera ed Austria, dove Werner cresce vivendo in condizioni di estrema povertà ma anche di estrema libertà, scalando montagne, sciando, mungendo mucche, parlando un dialetto bavarese così stretto da renderlo incomprensibile ai ragazzi di città, quando più tardi frequenterà le scuole superiori a Monaco. Ricorda la sua conversione al cattolicesimo e gli anni di profonda convinzione religiosa, dalla quale in seguito si sarebbe allontanato, ma quella contemplazione “estatica” del mondo gli sarebbe rimasta per sempre dentro: i film e i libri di Herzog, per quanto disperati, non sono mai nihilisti.
Emerge soprattutto la figura incrollabile, quasi rocciosa come le montagne da cui viene, di un ragazzo che non si ferma di fronte a niente: percorre la Germania a piedi, da picco a picco; viaggia in giro per il mondo, senza soldi né bagagli, va in Grecia, in Egitto, in Africa Occidentale: si ammala, rischia più volte di morire, viene arrestato. Non ha mai visto un film fino all’età di undici anni; il primo che vede è un documentario sugli esquimesi, a scuola, che non gli fa nemmeno molta impressione perché gli esquimesi non sono veri esquimesi. Tutto quello che sa di cinema l’ha imparato consultando un’enciclopedia, ma ruba una cinepresa a 35 mm. abbandonata in una scuola a Monaco (“nessuno la usava ed io l’avrei usata, quindi non fu un furto”, si giustifica) e, lavorando come operaio saldatore per finanziarsi, fonda la sua casa di produzione e gira il suo primo cortometraggio. È proprio vero, le scuole di cinema non servono a niente, se lo vuoi fare lo fai, perché hai il fuoco dentro, così come – tipico motto herzoghiano – “l’unico modo per smettere di fumare è smettere di fumare”. Chi cerca un metodo cerca un alibi.
Così si avvia una carriera che cerca e trova sempre il personaggio estremo, la scelta radicale, la possibilità del non ritorno. Nani ribelli e anarchici (Anche i nani hanno cominciato da piccoli: quando stanchi delle riprese minacceranno di lasciare il set, Herzog promette loro che se finiscono il film si butterà in un burrone pieno di cactus spinosi, entrambe le parti mantengono la parola e il regista monterà il film con il corpo ancora pieno di spine); persone minorate contemporaneamente della vista e dell’udito (Paese del silenzio e dell’oscurità, che giustamente Werner considera il suo film più profondo. C’è una scena che non riesco mai a guardare senza piangere: la protagonista, un’anziana signora sorda e cieca che ha imparato un sistema di comunicazione mediante il tatto e ha dedicato la vita ad aiutare le persone come lei, esprime il desiderio di volare su un aereo e viene accontentata mentre Werner la filma: non vede, non ode, ma “sente” il volo e lacrime estatiche le scendono lungo il viso); un intagliatore, campione di salto con gli sci che non salta, vola: rischia di morire ma vola (La grande estasi dell’intagliatore Steiner del 1973); l’unico uomo che si rifiuta di abbandonare l’isola natale minacciata dall’esplosione di un vulcano (La Soufrière del 1977: Herzog partirà subito per filmarlo esponendosi allo stesso rischio senza la minima esitazione. L’esplosione miracolosamente non avverrà); e poi visionari ed emarginati, vittime e carnefici, come Aguirre e Fitzcarraldo, come il profeta bavarese Mühlhiasl di Cuore di Vetro (film del 1976, con tutto il cast che recita in stato di ipnosi, effettuata dal regista in persona), come Kaspar Hauser e Stroszek o Woyzeck, come il vampiro di Nosferatu, come l’incauto e sprovveduto animalista, che amerà troppo gli orsi fino a farsi sbranare (provocando così anche la morte della sua fidanzata) di Grizzly Man, come il ridicolo e folle dittatore cannibale Bokassa, emulo caricaturale di Napoleone, di Echi da un regno oscuro del 1990, come il Principe Carlo Gesualdo da Venosa, sublime musicista e spietato uxoricida, di Gesualdo – Morte per cinque voci del 1995, come il tetragono e invitto ufficiale giapponese Onoda del libro Il crepuscolo del mondo.
Herzog non manca di omaggiare i suoi attori, in particolare Klaus Kinsky, che minacciò di morte se avesse abbandonato il set di Fitzcarraldo e a cui già aveva dedicato il film Il mio nemico più caro del 1999, e Bruno S.: “fra tutti i grandi attori e grandi attrici con cui ho lavorato, il migliore in assoluto […] Aveva una profondità, una tragicità e allo stesso tempo una veridicità che non ho mai visto sullo schermo. […] non gli interessava essere una star, ma piuttosto il Milite Ignoto del cinema”. Per la prima volta ne rivela il vero nome: Bruno Schhleinstein. “Nel cinema, non ci sarà mai un altro come lui”. Infine ricorda con commozione Bruce Chatwin, che conobbe, già gravemente malato, quando traspose il suo romanzo Il Vicerè di Ouidah nel film Cobra verde e che gli lasciò in punto di morte il suo zaino, fedele compagno di mille viaggi.
Con lo stesso fuoco interiore e la stessa dedizione avuta per il cinema, Herzog si è dedicato alla sua seconda attività di regista: senza conoscere la musica e non avendo mai assistito a un’opera lirica, quando viene contattato dal Teatro Comunale di Bologna nel 1985 per dirigere il Doktor Faust di Ferruccio Busoni si lancia nell’impresa da neofita assolutamente vergine di orchestre, cantanti e spartiti (all’epoca già fan sfegatato del regista, per i suoi film e per il libro Sentieri nel ghiaccio che mi segnò profondamente, ricordo di essermi guadagnato con un amico giornalista, l’ingresso gratuito alla prova generale dell’opera: posso assicurare che fu un’esperienza del tutto insolita. Non riuscii però, come speravo, a incontrare Werner). Dal successo di questa prima realizzazione teatrale scaturisce una seconda carriera che ha portato Herzog a calcare i maggiori palcoscenici operistici del globo: da Bayreuth al Tetro della Scala, dal Bellini di Catania al Carlo Felice di Genova, dall’Opera Bastille di Parigi all’Opera di Tokyo. Inoltre sarà attore – di solito nei ruoli di cattivo – e, con la sua voce ipnotica e il suo inglese dal fortissimo accento tedesco, doppiatore di sé stesso, perfino in un cartone dei Simpson.
A dimostrare scarsa considerazione per le regole formali il libro si interrompe bruscamente nel mezzo di una frase: come spiega l’autore nell’introduzione, mentre scriveva una distrazione era subentrata improvvisa dalla finestra, “non un proiettile ma un colibrì”, quando era tornato alla pagina si era reso conto di colpo che era il momento di smettere. Tutto qui. Il riferimento al proiettile è un altro aneddoto proverbiale su di lui: durante un’intervista all’aperto per la BBC a Los Angeles, dove vive da qualche anno, qualcuno gli aveva sparato addosso – per sua fortuna con un fucile ad aria compressa – colpito all’addome e sanguinante per la ferita, Werner si era rifiutato categoricamente di interrompere l’intervista con una frase divenuta un vero tormentone tra i suoi fan: “Let’s go on. It’s not a significant bullet!”