La facoltosa famiglia di Vladimir Nabokov fu costretta ad abbandonare San Pietroburgo nel 1917, quando i bolscevichi presero il potere nel corso della Rivoluzione d’ottobre. Il futuro scrittore di Lolita trascorrerà alcuni anni nel Regno Unito, per poi trasferirsi nel 1923 a Berlino, grande crocevia di émigré russi, città che non abbandonerà che tredici anni dopo, quando con la moglie Vera si trasferirà a Parigi, per poi, nel 1940, vista la brutta aria che tirava, optare per gli Stati Uniti, paese di cui arriverà ad adottare la lingua nelle proprie opere, con i risultati che sappiamo.
All’epoca in cui Nabokov viveva a Berlino appartiene “L’occhio”, racconto lungo scritto in russo e pubblicato nel 1930, racconto lungo scritto in russo e pubblicato nel 1930 che vede protagonista un immigrato russo, di professione insegnante, e comprende altri personaggi che ne condividono la condizione. Costui, piuttosto indeterminato come tanti personaggi senza nome tipici dei romanzi scritti dall’autore nella propria madrelingua, passa il tempo in una pensione di emigrati russi a decifrare le azioni di altri due pensionanti, Smurov e Vanja.
Il lettore, in questa vicenda, è portato a dubitare della reale esistenza del primo o, viceversa, degli altri due. L’opera gioca in maniera determinante su quest’ambiguità, portando a una riflessione sull’identità e sulla diversità di concezioni che ci si può costruire delle altre persone o di noi stessi: un discorso che sconfina facilmente nel metaletterario, se si accetta di vedere nel protagonista un alter ego della mente creatrice dello scrittore.
Per approcciarsi adeguatamente a questo racconto lungo, il cui titolo originale russo significa sia “spia” sia “osservatore”, occorre rifarsi alle indicazioni dello stesso Nabokov, che lo descrisse come “l’universo di un’anima in dissoluzione, dove il povero Smurov esiste solo per ciò che riflette in altri cervelli i quali, a loro volta, si trovano nel suo stesso strano speculare impiccio” (p. 11). Il tema è “lo svolgersi di un’indagine che guida il protagonista in un inferno di specchi e si conclude con le immagini gemelle che si fondono in una” (p. 12), il che sembra suggerire un’interpretazione ottica della doppia vita dello stesso personaggio (i due occhi che formano integrandosi una vista a più ampio raggio), unificata nell’individuo risultante alla fine.
L’occhio del titolo è quello dell’amante di una donna sposata che viene percosso a bastonate dal di lei marito e, sentitosi offeso nella propria dignità, si suicida con un colpo di pistola al petto. Lo sparo non è immediatamente letale, o almeno non per l’occhio, che comincia a condurre una vita a sé, forse condensata in quella manciata di minuti che precedono il decesso. Come viene scrittto nella quarta di copertina, esso allora si crea un romanzo alternativo alla realtà, come se questo potesse garantirgli un riscatto e una via di fuga. Ma non si scappa a sé stessi, e anzi è il se stesso che a un certo punto diventa l’oggetto al cui inseguimento, senza soluzione di continuità, si getta l’io narrante, e in un labirinto di riflessi apparentemente inestricabile assistiamo a una sorta di ricerca di senso e di verità che fa assomigliare la storia a un racconto poliziesco.
Il punto d’arrivo, oltre a essere la risoluzione del caso, è quello di una riflessione sulla non presenza a se stessi, o meglio una considerazione sulla felicità derivante dallo straniamento, come se per trovare un senso e un perché all’esistenza occorresse esaminarla con distacco. “Dopotutto, per vivere felici bisogna conoscere di tanto in tanto qualche momento di assenza perfetta” (p. 18); “l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio vitreo, leggermente iniettato di sangue” (p. 100).
L’idea generale che sorregge questo breve romanzo è piuttosto cerebrale, cosa non difficile quando si imbocca la strada pirandelliana della riflessione sul concetto di identità (“Potevo già contare tre versioni di Smurov, ma l’originale rimaneva ignoto”, p. 58; “In fondo lei non mi conosce… ma in realtà io porto una maschera, sono sempre nascosto da una maschera…”, p. 92; “Si sa che non esisto: esistono solo i mille specchi che mi riflettono”, p. 100), ma il discorso poteva essere condotto con più limpidezza senza detrimento alcuno della poesia. Come insegna Luigi Pirandello, noi ci crediamo “uno”, ma a ben vedere siamo molti di più, e al di là di questa moltitudine di personae (cioè togliendo ai volti di tutti i vari fantocci che ci rappresentano le rispettive maschere) è difficile trovare il nostro vero io, quindi l’esito può essere deludente, non trovando più “nessuno” che possa essere considerato la nostra quintessenza. Similmente, Nabokov asserisce che “Andare alla ricerca di una legge basilare è una sciocchezza e ancor più lo è reperirla” (p. 36), fermo restando che ogni impressione è determinata da aspetti contingenti (pp. 58-9).
Interessante è, a questo riguardo, la similitudine entomologica con la classificazione di un tipo comune di farfalla di cui esistono esemplari in tutta Europa: è solo per convenzione, scrive lo scrittore, che fra tutte le razze si è scelta, “quale rappresentante di quella tipica, lo sbiadito esemplare scandinavo raccolto da Linneo quasi duecento anni prima [dunque il più antico classificato]; e questa identificazione mette le cose a posto” (p. 58). Come nel caso della ricerca del “vero Smurov” (ivi) – parrebbe dirci lo scrittore – la ricerca del nostro vero io è un mero gioco intellettuale; ed è nell’assenza stessa di Smurov, cioè nella nostra intermittente assenza a noi stessi (che nel frattempo tutt’al più ci contempliamo), che consiste la felicità. O almeno, questo è quanto afferma l’Occhio.
Le citazioni sono tratte da: Vladimir Nabokov, L’occhio, tr. Ugo Tessitore, Collana Piccola Biblioteca, Adelphi, 1998, pp. 102, euro 10,00 stampa