Il panorama editoriale italiano è, solitamente, campo d’elezione della saggistica, tutt’al più argomento d’indagine giornalistica. Ma cosa accadrebbe se uno scrittore si prendesse la briga di farne materia romanzesca? Se, per dire, ponesse al centro della trama un giovane percosso dal destino, animo sensibile e carattere testardo, il quale, innamorato della letteratura e preda dell’istinto creativo, immolasse la vita alla scrittura perseguendo il sogno di venire pubblicato, di vedere unanimemente riconosciuto il proprio talento? È ciò che ha fatto Vladimir Di Prima con il suo quarto romanzo, Il buio delle tre, pubblicato da Arkadia Edizioni. Il personaggio in questione si chiama Pinuccio Badalà, è nato a metà degli anni Settanta e vive in un paese del Catanese (come il suo creatore, che nel centro etneo è nato e vive), e il fato si è accanito su di lui riducendogli il padre, sindacalista in viaggio a Bologna e salvo per la “cieca determinazione del caso”, a un mutilato “destinato a far finta di vivere” in seguito all’attentato dell’agosto 1980, infine strappandoglielo per un bizzarro incidente.
Il titolo rimanda all’ora più fonda della notte, metafora di un precipitare nella voragine esistenziale, da cui il buon Pinuccio cerca volitivamente di riemergere “come un cane che parlava alla luna anche quando la luna non c’era”, e la vicenda si dipana lungo un quarantennio, sullo sfondo di eventi epocali (appunto la strage di Bologna, lo sgretolamento del colosso sovietico, gli attentati a Falcone e Borsellino, alle Torri Gemelle), giungendo sin quasi all’oggi; vediamo Pinuccio crescere con i comprensibili traumi, sotto l’ala di una madre apprensiva, simbolo di una cultura atavicamente passiva e remissiva davanti alle dinamiche della storia, contro la quale il giovane mette in atto una pertinace ribellione. Molla che non scatta subito, poiché, dopo la maturità scientifica, il ragazzo non trova “niente in grado di incuriosirlo più dell’inerzia a cui voleva destinarsi”. L’inerzia è motivo ricorrente: quella degli adulti e della sua terra, che si scrollerà di dosso grazie alla convinzione di essere “un predestinato”, che scrive “per entrare nella storia”. Sarà questa diversità ontologica a salvarlo dalle incomprensioni e dallo “scetticismo isolano” che lo assediano, a conferire senso alla sua vita e concedergli una possibilità di riscatto dal grigiore cui sarebbe destinato.
Terra di “vane consolazioni”, la Sicilia è coprotagonista, punto di fuga e àncora di salvezza a cui sempre Pinuccio s’abbarbica per leccarsi le ferite dopo i pellegrinaggi nei respingenti reami dell’editoria italiana, abitati da figure ora ridicole e grottesche, ora ipocrite e fatue, ora tracotanti e boriose, quasi sempre incapaci, “manipolo di inetti depravati o fricchettoni metodisti piazzati a prua di una nave già sul fondo dei mari”. Per lo scrittore in cerca di conferme, che trascorre la vita “allacciato alle travi di un sogno”, quello natìo è il luogo dove escogitare trame, allestire “fiere, inviti, agenti, mascheramenti” con l’intento di piazzare i propri scritti, come quando, non privo di genio, organizza la presentazione di un libro per attirare una nota scrittrice e il suo editore – tra i momenti più esilaranti del romanzo –, scarrozzandoli per le bellezze etnee e rimpinzandoli con delizie gastronomiche prima di affibbiargli la propria opera; o ancora, si finge agente letterario, sempre con lo scopo di avere ragione delle “aberranti logiche della grande macchina editoriale italiana”.
E così, tra innamoramenti ed esperienze di formazione erotica, interminabili attese e l’ideazione di trame diaboliche, incontri con i pochi in grado di manifestargli affetto e comprensione (un vecchio professore che “insegnava a essere liberi” poi misteriosamente scomparso, un ingegnere ottuagenario che s’ostina a sfilare per “i licenziosi viali di Catania” in cerca del “nettare di Dio”, un maturo scrittore, addirittura un premio Nobel agganciato con ammirevole scaltrezza), tra personaggi reali come Lucio Dalla e d’invenzione, più d’uno preda d’ipocondrie (simbolo d’un tempo infetto, la malattia attraversa il testo come un filo rosso), la narrazione si dipana lungo le montagne russe di poderose illusioni e cocenti delusioni.
Il tono è quello della tragicommedia, e l’originalità non risiede solo nella trama, ma anche nell’ascendente letterario, il romanzo picaresco: Pinuccio è un moderno Lazarillo di cui, con una partecipata narrazione in terza persona, si seguono le peripezie, ma con una variante rispetto al modello di riferimento, poiché per sopravvivere il protagonista non compie azioni riprovevoli, non accetta compromessi con un mondo spietato ma rimane fedele a se stesso, e ignoriamo se la sua “purezza” (che è anche cieca ostinazione) sarà premiata con il successo. L’incipit si consuma in un micidiale iato, in cui, da momenti di scompiscevole ilarità giocati sul topos dell’isolano che viaggia nel continente si scivola in un attimo (quello devastante dell’attentato) nella tragedia. La stoffa dell’autore si estrinseca proprio nella misurata fusione dei registri (v’è anche un inserto onirico dalle tinte gialle), resi in una lingua metaforica, un lessico denso di echi dei maestri prosatori siciliani (Sciascia e Brancati su tutti), ma anche memore della lezione d’un Camilleri con la dilatazione semantica di verbi e aggettivi basata sul vernacolo, una prosodia che si stacca da quella misera e scontata di tanti romanzi contemporanei. Convincenti i dialoghi, venati d’ironia e sapidi accenti dialettali, vividi e concreti i personaggi, a partire dal Badalà, alcuni con nomi dall’umoristica pregnanza pirandelliana: Carmelo Cantalanotte, Orazio Magazù, Rosalia Quattrocchi, Cischino Menestrello.
Quanto questa storia sia la trasfigurazione letteraria dell’esperienza dell’autore, se sia un riuscito esperimento di ironica autoanalisi, non è dato sapere. Certo è che, con talento comico virato sul grottesco, Di Prima cesella un’amara parodia del nostro tempo, mettendo in scena la decadenza culturale attraverso il filtro delle ambizioni di un provinciale deciso a lasciare un segno, non soltanto per vanagloria ma per autentico trasporto verso l’arte, il bisogno di “essere” e non di apparire. Ma il dilemma che ammanta il personaggio rimane irrisolto, del protagonista sappiamo solo che è un “aspirante scrittore di romanzi dallo stile pretenzioso”: Pinuccio Badalà è il classico genio incompreso o un inguaribile sognatore, icastica personificazione del piccolo borghese incapace di uscire dalla mediocrità sua e del proprio milieu? Stupido, comunque, non è, se si ritrova sull’orlo della “spirale senza sbocco della pazzia”, se arriva a comprendere che “la letteratura, in fondo, era solo un grande surrogato, un luogo inventato dagli uomini come lui per rendere più sopportabile un’esistenza che sin dal primo pianto li aveva messi in una condizione di drammatica estraneità”. E v’è un’altra certezza: il suo creatore è scrittore autentico, che conclude il romanzo con l’accortezza di lasciare all’incuriosito lettore il fantasticare gli esiti della storia.