La poesia di Vittorino Curci, considerato il “secondo mestiere” del suo autore (sassofonista jazz), mostra una ineludibile, verlainiana continuità con la musica, che tocca momenti di totale simbiosi. Ne sono testimonianza sillogi come Liturgie del silenzio (La Vita Felice, 2017) e L’ora di chiusura (La Vita Felice, 2019), ma anche i due quaderni di Note sull’arte poetica (Spagine, 2018 e 2020), davvero rivelatori per comprendere il laboratorio lirico-armonico di Curci. Cadenze per la fine del tempo, che segue il ritmo di linee melodiche in un flusso coscienziale segnalato dalla costante presenza della lettera minuscola, aggiunge un pezzo considerevole a un discorso che di primo acchito poteva sembrare in sé conchiuso, già stabilizzato dal pregevole volume complessivo, con prefazione di Milo De Angelis, Poesie 2020-1997 (La Vita Felice, 2021), e dunque marmorizzato in una pienezza di forme e di stati spirituali. Ma il verso di Curci – da questo punto di vista, apparentabile a quello dell’ultimo Luzi – è per vocazione in continua metamorfosi, la sua “dottrina” è quella, modesta e intelligente, dell’“estremo principiante”. La poesia coincide così con una ricerca assoluta e, in quanto tale, non può mai ripetersi, anzi assume vesti sempre cangianti e raggiunge obiettivi sempre mobili, superabili. Come scrive Luciano Pagano nella quarta di copertina, Cadenze per la fine del tempo “si configura come un’etica per un mondo senza eroi, con degli assolo che emergono prima che il tutto ritorni all’origine, suonati con l’unico strumento che abbiamo per affermare la nostra libertà: il verso. Questi motivi vanno letti come sequenze intime di un DNA poetico, ultimi tasselli di sé, della propria lingua, che culmina in un tentativo di ‘sequenziare’ il mondo rifuggendo ogni solipsismo, raccontando la frattura tra uomo e natura, da una parte, e tra uomo e storia dall’altra”.
Il testo che apre la raccolta, Sullo spartiacque, è percorso da questo sentimento apocalittico, di cessazione imminente dell’umano che, però, presuppone in sé una rinascita, una palingenesi: “i disertori suonano con le scarpe un vialetto di ghiaia. / per scaldarsi bruciano libri. / il rifluire del tempo sul quadrante ci coglie impreparati. / vaghiamo curvi e senza lampade // ad aspettarci c’è una ragazza con un diastema / tra gli incisivi. e cose di cui non abbiamo voglia di parlare. / le braccia torpide… le voci provate dal troppo urlare… / i ripetuti salti mortali sugli assiti fradici della storia // via via disperando di uscirne vivi”.
Tra miraggi verbali, fate morgane (“le parole guizzavano sotto le ali azzurre di creature create”), autoparafrasi e glosse marginali – ampio è lo spettro della funzione fàtica del linguaggio –, si fa largo la consapevolezza che lo “squasso di una vita incompiuta”, attraverso la trazione massima della poesia, possa attutire il colpo, cristallizzarsi in una “scrittura di fuoco” e rimanere in perfetto equilibrio là dove “le nostre biografie sono mute” e “aspettiamo in silenzio”. Walter Pater era convinto che “tutte le arti tendessero alla musica”. Ma dimenticava di aggiungere che la musica stessa tendeva al silenzio. Vanitas vanitatum dell’espressione: Curci, nel lungo itinerario del dictum, riconosce che “parlare molto è il modo migliore per nascondere i pensieri”. Se questa realtà è “pretesto, alibi, esilio”, pur senza svuotare di senso la poesia, è necessario tornare – ancora luzianamente, ancora musicalmente – a quell’“ignota sapienza”, quell’“esattezza implacabile” che è “rugiada sull’erba” svaporata al “primo sole”, una rivelazione inconcussa per l’uomo contemporaneo: la parola pura, purificata.