Ho voluto accoppiare questi due fumetti perché appartengono entrambi a un genere che ultimamente sta letteralmente dilagando, quello delle biografie narrate con parole e immagini sequenziali; basti pensare alle numerose proposte della casa editrice Becco Giallo per rendersi conto di quanto spesso la vita di personaggi famosi per le ragioni più disparate venga inquadrata in vignette e raccontata in didascalie. Sicuramente c’è anche una componente didattica in tutto questo, avvicinare bambini e adolescenti a figure storiche attraverso un linguaggio che parli loro più immediatamente; però il successo dei fumetti biografici è anche prova del fatto che l’arte sequenziale non vive in un vuoto, e risponde agli stessi stimoli ai quali è sensibile la letteratura puramente verbale (per molti ancora l’unica Letteratura con tanto di maiuscola). Sarà un caso se le vite disegnate fioriscono nello stesso periodo in cui incontrano il favore del pubblico scrittori come Joyce Carol Oates ed Emmanuel Carrère, o le autofiction di Walter Siti?
Dopo aver detto biografia, però, non abbiamo ancora detto niente. La narrazione di una vita in parole e immagini si può articolare in tanti modi, e questi due volumetti (per numero di pagine, non per formato) lo dimostrano. A partire dalla scelta dei personaggi dei quali si vogliono illustrare le vicende – entrambe tragiche, ma in modo del tutto diverso. Abbiamo infatti una vittima e un carnefice; una donna e un uomo; una grande artista e un famigerato serial killer. E siccome entrambi sono stati cittadini degli Stati Uniti, va sottolineato che lei Eleanora Fagan, in arte Billie Holiday (1915-1959) era nera, e lui, Theodore Robert Bundy, alias Ted Bundy (1946-1989) era bianco. Ovviamente la vittima è lei, anche detta Lady Day, l’angelo di Harlem, con alle spalle un’infanzia devastata, un’adolescenza miserabile (fu anche costretta a prostituirsi), e poi tossicodipendenza e alcolismo, nonché i soprusi e le umiliazioni del pregiudizio razziale; mentre Bundy, con almeno trenta omicidi al suo attivo in soli quattro anni, è altrettanto ovviamente il carnefice.
L’approccio delle due biografie grafiche, si diceva, è assai diverso. Intrecciano tempi diversi con una serie di flashback che sfumano l’uno nell’altro i due grandi argentini, partendo dall’inchiesta di un giornalista che deve scrivere un servizio sulla Holiday in occasione del trentesimo anniversario della sua morte, con una serie di raffinatissime tavole tracciate da Muñoz col suo tratto tra il primitivista e l’espressionistico, con una netta prevalenza dei neri che evoca il carattere notturno del jazz, ma anche il colore della cantante, nonché il noir di una storia che è quasi criminale. Più secca e cronologicamente ordinata la serie delle efferate gesta di Bundy, schegge di un’orgia di violenza e perversione (prima uccideva le sue vittime, poi le violentava), con un disegno più grafico ma pur sempre in bianco e nero, come a raggelare la brutalità degli omicidi; e intrecciando la storia con la musica del periodo, evocata tramite le parole delle canzoni di David Bowie, dei Deep Purple, degli Eagles. A fare da intermezzi tra un assassinio e l’altro, le interviste ai testimoni, inquadrate in uno schermo televisivo, una soluzione che riecheggia The Dark Knight Returns di Frank Miller.
Del resto Ted Bundy – Il male assoluto fa parte di una serie intitolata «The Real Cannibal – La vera storia dei più grandi cannibali e mostri a fumetti», quindi spinge sul sensazionale, sbatte il mostro in copertina, per così dire. Eppure la violenza estrema e orrorifica di questa biografia grafica e quella più ordinaria, e spesso più psicologica che fisica, rappresentata in Billie Holiday (particolarmente straziante la scena in cui la cantante viene lasciata nuda per strada da Rufus, il suo ex-protettore, col quale è legata da un rapporto morboso, ed è oggetto di scherno da parte dei poliziotti bianchi), sembrano in fin dei conti avere le stesse radici. Ci sono strane, quasi arcane assonanze tra la vita della cantante nera e del mostro bianco: vittima di una serie di uomini la Holiday, e carnefice di una serie di vittime Bundy; entrambi poi caratterizzati da un’infanzia disastrosa, nati da famiglie (come si dice oggi) monoparentali, abbandonata dal padre Holiday in tenerissima età, figlio di ragazza madre Bundy, tanto che l’identità del genitore è oggetto ancora oggi di ipotesi – e si sospetta addirittura una nascita incestuosa, con la madre Eleanor (notate il nome!) Louise Cowell messa incinta dal nonno di lui e padre di lei Samuel. Siamo a Chinatown, direbbe Polanski per bocca di Jake Gittes. Miseria, violenza, psicopatia borderline sembrano aver assediato Billie e Ted fin da piccoli; in un caso ne è uscita l’arte, nell’altro la morte. In entrambi i casi, vite brevi e disperate, anche se pure durante la lunga attesa nel braccio della morte Bundy fu atrocemente impassibile.
Sono storie americane, storie di suprema bellezza e terrore assoluto. Sono anche storie, volendo, segnate dalla differenza: di genere forse ancor più che di colore (i maschi che si sono approfittati di Billie Holiday non erano affatto tutti bianchi; e l’unico vero amico era il sassofonista Lester Young, notoriamente omosessuale). In tempi di dibattito sulla violenza che le donne subiscono, entrambe queste biografie mi sembrano rilevanti.
E concludo: non voglio fare confronti di qualità tra il lavoro di due mostri sacri come Muñoz e Sampayo e il duo Di Virgilio e Cittadini (Massimo Picozzi e Rossano Piccioni firmano solo la breve introduzione – anch’essa, coerentemente, a fumetti). Sarebbe profondamente ingiusto; i due maestri possono permettersi trovate geniali come il cameo nel loro fumetto di Alack Sinner, il detective disincantato che li ha fatti conoscere, eroe amaro di un hard-boiled fortemente politicizzato; hanno una storia alle spalle, e possono giocarci. La mia ammirazione va indiscriminatamente a tutti gli autori: ai Grandi Vecchi per la loro maestria, ai giovani leoni per il coraggio e l’intraprendenza che dimostrano. Promettono bene, gli autori di Ted Bundy; e magari, chissà, tra quarant’anni faranno parte anche loro della hall of fame dell’arte sequenziale. Li terremo d’occhio.
(Doveroso aggiungere che la graphic biography di Muñoz e Sampayo era stata già ristampata nel 2014 da Edizioni BD, perché la prima edizione in volume risale al 1993, per i tipi di Rizzoli; la primissima pubblicazione fu su Corto Maltese nel 1990, in due puntate.)
Di Muñoz e Sampayo la nostra Rivista recensirà anche Carlos Gardel, sempre edito da Sur.