Pubblicata a breve distanza dal suicidio del suo autore, la nuova edizione ampliata di Works getta una luce diversa sull’opera inizialmente uscita nel 2016 e da subito di grande successo. Magnum opus dello scrittore vicentino Vitaliano Trevisan, si tratta di un curioso esempio di autobiografia incentrata in modo esclusivo sulle esperienze lavorative, a cominciare dal primo lavoro da adolescente, l’impiego estivo in una fabbrica di gabbie per uccelli (finalizzato all’acquisto dell’agognata bicicletta con il “palo”, cioé da uomo) a quello di portiere di notte presso un albergo di periferia, passando attraverso occupazioni di ogni genere (geometra comunale, spacciatore, disegnatore di cucine, lattoniere…), più o meno in regola e più o meno legali. Il taglio del testo tuttavia non riduce la vita dell’autore/protagonista alla sola esperienza lavorativa perché questa risulta permeata da cambiamenti sociali, fallimenti amorosi, dissidi familiari, passioni letterarie e molto altro, che si fanno largo a forza nella narrazione. Attraverso la presentazione di un contesto geografico (un Nordest in cui il lavoro è Religione), di situazioni lavorative in bilico tra commedia e tragedia e l’incontro con personaggi memorabili, la lettura procede agile nonostante un periodare fluviale denso di incisi, grazie a un uso originale di forme reiterate (una su tutte la formula introduttiva di molti ragionamenti “in una regione, il Veneto, e in una provincia, Vicenza”).
Se per molti versi Works è un libro divertente che strappa più di una risata facendo leva sull’immedesimazione di chi legge in situazioni al limite dell’assurdo che si riscontrano nel così detto “mondo del lavoro”, quasi questo fosse appunto mondo a parte, sotto altri punti di vista è percepibile un disagio latente quando si toccano temi come quello delle modifiche al territorio attraverso la logica della congestione (l’accumulo di villette nei centri abitati, di capannoni nelle zone industriali, ma anche di “eventi” nei festival letterari) o la trattazione della corrispondenza di identità che si pretende di imporre al lavoratore rispetto al suo lavoro.
Trevisan esplicita, attraverso citazioni e indicazioni dirette, i propri modelli letterari ed è infatti evidente quanto abbia attinto (non solo stilisticamente) a Thomas Bernhard per sviluppare una scrittura in cui l’ironia più pungente può crescere fino a farsi invettiva polemica o smussarsi in uno scherzo da bar. Non sfugge il calco addirittura pedissequo di certi brani dello scrittore austriaco come, per esempio, quello dedicato al disagio portato dalla domenica e dall’inevitabile vuoto del tempo libero, tracciato sulle pagine di La cantina.
È tuttavia l’aleggiare della dimensione tragica, che mai si esprime compiutamente e grava quasi astratta sul lettore, a caratterizzare il testo di Trevisan insieme all’ironia e all’aneddotica. Il mescolamento di risata e amarezza dà consistenza alla narrazione anche se, in ultima analisi, questa risulta sorretta dallo sguardo cinico del narratore verso il mondo in generale (e del lavoro in particolare), rispetto al quale nutre un sentimento di estraneità, una confusa percezione di sé rispetto agli altri, come nel passo di seguito riportato in cui viene espresso un ragionamento nato dopo aver messo in atto un trucco per non seguire gli ordini del padrone.
Penso che sapesse, ma non riuscì mai a cogliermi in fallo. In verità credo trovasse delle difficoltà a decifrarmi, non riusciva cioè a decidere se fossi effettivamente un po’ lento, tanto a capire quanto a fare, o se facessi solo finta di esserlo — qualcosa che mi ha dato il tormento per tutta la vita, essere stupido, o quantomeno un po’ tardo, e non sembrarlo; peggio: sembrare uno intelligente che finge di essere stupido.
I lavori di cui si racconta, anche quando occupano un tempo di qualche anno, sono sempre vissuti come precari e ciò non tanto perché il personaggio si trovi necessariamente in questa condizione – appartenendo di fatto alla generazione del “posto fisso”, del mutuo e del “metter su famiglia” – quanto piuttosto per il rifiuto di un annullamento della propria identità all’interno del ruolo di lavoratore. Il motivo? La convinzione nel perseguire l’obiettivo di diventare uno scrittore. Non viene spiegato se tale mira sia finalizzata a esprimersi o a conseguire un’immagine di sé modellata su un ideale; certo è (e questo viene detto in più punti all’interno del testo) che la scrittura, e cita Wittgenstein, non serva a comunicare. La scrittura non viene collocata rispetto a un orizzonte estetico, ma nell’ambito dei mestieri; si parla in maniera ridotta di tale lavoro e questo in virtù del fatto che possa essere considerata tale solo un’occupazione da cui derivi un reddito che consenta di mantenersi. In questo panorama si colloca anche la rappresentazione che viene restituita del così detto “lavoro culturale”: quella di vuoti meccanismi autoreferenziali, seri per chi ne fa parte, illogici (e magari ridicoli) per chi li osserva da una posizione esterna.
Forse semplicemente il pubblico applaude perché è presente; intendo non tanto presente a se stesso, ma all’evento, o almeno questa è l’impressione ricavata in tutte le occasioni in cui l’autore si è ritrovato coinvolto in simili manifestazioni, maratone di lettura, festival letterari e simili, che magari partono con le migliori intenzioni.
Una necessaria riflessione merita l’inedito, incluso alla fine del romanzo dal titolo Dove tutto ebbe inizio, che ripropone in poche pagine tutti i temi sviluppati nelle oltre seicento del libro. Non una semplice gratifica per l’entusiasta lettore mai sazio della voce dello scrittore, ma soprattutto un messaggio inquietante in cui è più evidente che mai lo sforzo che comportava per Trevisan il “mestiere di vivere“, tanto che racconta dell’abitudine infantile di coricarsi la sera pregando Dio di non svegliarsi più per non dover affrontare un altro giorno, tanto che sfogliando le pagine senza leggere, ma lasciando lo sguardo libero di posarsi dove capita, si inciampa spesso in una parola più presente di altre: suicidio. In riferimento a questo inedito la fascetta dell’edizione ampliata del libro recita così: “un testamento letterario”; forse che ce ne siano altri, tali da impedire a questo di essere il testamento? A ben guardare non si riscontra la volontà di elargire un lascito fisico ai posteri, ma si può intravedere quella di tracciare una via per leggere i testi dell’autore e per un approccio franco alla scrittura.
E ora cosa stai facendo? Una pausa. Magari i cazzi miei? La tentazione è sempre forte, ma mi domino e di solito, salvo qualche rabbiosa eccezione, mi limito a rispondere che sto scrivendo. Scrivo, dico, e tanto basta.
Non nasconde nulla l’autore, non nasconde la depressione e il fallimento, non nasconde la codardia e le proprie bassezze, ma questo è ancora poco per fare di Works il libro che è, perché Trevisan non esalta nemmeno queste cose, nessuno spazio per moralismi o sentimentalismi, ma solo la vita come una lotta da cui poter scegliere di ritirarsi.