Lo ammetto, sto cercando di evitare di inserirmi nel dibattito dedicato al proliferare delle traduzioni di 1984 di George Orwell, se non altro per l’affetto riposto all’Oscar Mondadori comperato e letto nel 1974 nella traduzione di Gabriele Baldini, e in seguito per il bel lavoro di Stefano Manferlotti, sempre per Mondadori. La traduzione di Manferlotti è quella inserita nel Meridiano dedicato a Orwell curato da Guido Bulla, autore del saggio L’ultima utopia, uno dei quadri più riusciti del contraddittorio autore inglese. Sono state letture belle e problematiche, sotto un certo punto di vista esaurienti, capaci di rendere la fitta trama di ambiguità del pensiero e della scrittura di Orwell, della sua forza e delle debolezze. Nella lettura di Orwell mi hanno sempre guidato proprio due saggi di Marfelotti, come il volume inserito nella collana Il Castoro della Nuova Italia (1979) e Anti-utopia. Huxley, Orwell Burgess, pubblicato da Sellerio nel 1984. È a partire da questi che cerco di iniziare una nuova lettura.
Scrivo questo perché in questa baraonda orwelliana, provocata dalla scadenza dei diritti, una raccolta di saggi come Il potere e la parola. Saggi su propaganda, politica e censura, con una lunga introduzione di Diana Thermes, è forse un modo più discreto, e da me condiviso, per leggere Orwell attraverso un percorso politico e letterario, e non attraverso una competizione sportiva fra traduzioni. Inoltre, il tema declinato dall’antologia di saggi e articoli è uno dei più complessi e “divisivi” (chissà come commenterebbe Orwell di fronte a una parola chiaramente afferente alla neolingua), ovvero la difficoltà che Orwell ha vissuto interiormente nel non potersi appoggiare mai né a una classe né a un partito. A mio parere, anche dopo la lettura di questa raccolta, ribadirei che l’urgenza etica e politica di Orwell si situano alla base del sua processo di creazione letteraria e ne determinano i temi, le trame, gli stili, gli epiloghi. È orribile leggere e capire quanto la sua figura sia stata strumentalizzata e sia entrata, assieme alle sue opere, nei meccanismi deformanti del Ministero della Verità mondiale del Capitalismo, del Fascismo e dello Stalinismo. Banale, superficiale e ignorante il ripetuto tentativo di ascrivere l’anticomunismo di Orwell a una più generale delle periodiche campagne parafasciste.
A ben vedere la lettura politica più onesta di Orwell la danno proprio i comunisti staliniani, riconoscendogli implicitamente il ruolo di nemico politico. E non è un caso che 1984 venga recensito e stroncato proprio da Palmiro Togliatti su Rinascita nel 1950. Sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, scrive “la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia”. L’inizio della recensione, invero una delle più ispirate pubblicate dal “Migliore”, è dedicato a una rassegna della tradizione utopistica, una storia che, nei suoi limiti ingenui, ha però elaborato la condanna delle ingiustizie e ha posto il primato della ragione umana come strumento di liberazione. Ma “altra cosa è il romanzo d’avvenire della borghesia dei nostri giorni, capitalistica e anticomunista, convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina, e decisa, perciò, alle ultime difese. Che alcuni dei suoi uomini, o degli uomini di cultura che si conformano al costume della casta dirigente e la servono”. L’accusa di Togliatti è crudele e ingiusta, e ribalta completamente quello per cui Orwell si era battuto, ovvero l’indipendenza dello scrittore dalla classe politica. E al termine della lettura di questa selezione di saggi, che coprono un ampio periodo della troppo breve della sua carriera, Orwell mi appare uno scrittore tormentato e sempre meno militante, sempre di più un intellettuale isolato e per nulla una persona che possa concepire un qualsiasi sacrificio verso un progetto politico che non fosse collettivo e dal basso, verso quel passo indietro dalle istanze e alle libertà individuali che era stato richiesto a tutti nel periodo tra le due guerre mondiali. È di questo che, alla fin fine, lo accusa Togliatti e, assieme a lui, l’intera classe intellettuale comunista (e Italo Calvino non fu da meno), cioè di non avere naturalmente scelto una semplificazione della propria identità per annullarsi in una classe meno sofisticata, meno controversa, di avere cercato di rafforzare la componente individuale a quell’avanguardia/partito e di non aver saputo reggere le contraddizioni di questo necessario processo di auto-disciplinamento politico.
La lettura di questa raccolta di articoli e saggi richiede, a ogni frase, di proiettare sullo sfondo storico i romanzi della produzione letteraria di Orwell e seguirne la loro declinazione temporale, l’evolversi del totalitarismo in Europa e la lotta contro di esso, una lotta spesso ambigua e dettata dalle priorità del Capitalismo dell’epoca, dei suoi opportunismi e del cinismo con cui ha usato il fascismo europeo. Dunque biografia, narrativa e ricerca politica costituiscono un nodo inestricabile che da questo libro rimanda agli altri, richiamando la tradizione letteraria per seguire quello che è uno dei temi fondamentali del suo pensiero, ovvero il rapporto tra individuo e collettività.
Figlio di un funzionario coloniale, educato alla St. Cyprian School e all’Eaton College, un’istituzione britannica in cui si sono formati anche membri della casa reale inglese, Orwell ebbe Aldous Huxley come insegnante, ma abbandona l’Inghilterra colta per l’Oriente. In Birmania si arruola nella polizia coloniale e matura progressivamente un’avversione per l’imperialismo e il razzismo che gli provocano un pesante senso di colpa per le azioni che aveva compiuto e per la sua collaborazione con un sistema ingiustificabile. Lui stesso scrive lucidamente che provava “un senso di colpevolezza che doveva espiare”. Da quel momento Orwell si schiera dalla parte degli oppressi, dovunque nel mondo essi si trovino, a partire dall’Inghilterra. Da questa presa di coscienza nasce la sua convinta adesione al socialismo e la sua collaborazione iniziale con Victor Gollanz che portano alla stesura de La strada di Wigan Pier. Gollanz era comunista e i contatti che lo conducono tra le famiglie operaie dello Yorkshire e del Lancashire facevano parte della rete del Communist Party of Great Britain (CPGB), ma naturalmente il resoconto, assieme alla forte solidarietà per i lavoratori e la loro povertà, riporta una critica aperta alla superficialità e al linguaggio dei militanti del Partito e del National Unemployed Workers’ Movement. Gli attivisti comunisti appaiono a Orwell poco credibili, acritici e fideistici verso l’esperienza sovietica e, soprattutto, retorici. In molti di questi saggi viene criticata la povertà del linguaggio e la vocazione ideologica della propaganda, la ripetizione di slogan svuotati di significato, una specie di dialetto iniziatico finalizzato a legare i militanti a una ideologia e non a sviluppare una capacità di analisi politica. Del resto Marx ed Engels in L’ideologia tedesca avevano definito l’ideologia come un’apparenza. All’inizio del 1937 l’avversione di Orwell verso il CPGB era di natura epidermica, legata soprattutto all’idea che il culto dell’Unione Sovietica, la superficialità dell’analisi e la povertà del linguaggio costituissero un motivo di allontanamento della classe operaia dagli ideali del socialismo. Ma l’elemento destinato a concretizzare la posizione politica di Orwell è la Guerra di Spagna. Boicottato da CPGB, riesce a raggiungere la Spagna e ad arruolarsi tra le file dell’Indipendent Labour Party, una compagine della sinistra laburista che aderiva nella milizia del Partido Obrero de Unificación Marxista, il POUM, un partito che era di vocazione internazionalista e criticava apertamente la centralità dell’Unione Sovietica all’interno del movimento operaio. A favore della presa del potere da parte delle classi povere e operaie, il POUM organizzava coerentemente le sue componenti militari in maniera non gerarchica, tanto che Orwell definisce quell’esperienza “una specie di modello sperimentale di una società senza classi”. Come noto Orwell condanna apertamente l’involuzione borghese della Repubblica spagnola voluta dal Partito comunista, succube della visione sovietica, e la fine dell’autogestione operaia e contadina. Questo tradimento del socialismo avviene a causa della visione nazionalista di Stalin che ha sacrificato l’esperienza rivoluzionaria spagnola per i propri fini di politica estera, tradendo il progetto internazionalista del marxismo originale. Su questa opposizione di sinistra, Orwell inizia una solitaria battaglia culturale che individua nel comunismo sovietico una proposta inaccettabile, una prospettiva che vede non una liberazione dei lavoratori e la loro autogestione, ma una progressiva presa di potere del Partito che, attraverso una sorta di teatralizzazione del comunismo, sostituirà le classi dirigenti capitaliste e borghesi con le proprie ma mantenendo le classi subalterne nella stessa collocazione. Ma l’esperienza spagnola gli ha dimostrato che – a differenza del potere capitalista-borghese che opprime apertamente con la violenza i lavoratori – l’esercizio del dominio da parte dei traditori del socialismo necessità di un apparato di mascheramento che finga che al potere siano i lavoratori attraverso i loro rappresentanti. Gli anni della Guerra mondiale vedono Orwell alla ricerca di affinità politiche che lo portano a contatto con l’anarchico Herbert Read, almeno fino a quando inizia a elaborare una forma di “patriottismo rivoluzionario”, ma continuando a pensare fondamentale la rivoluzione e il rovesciamento della classe dominante. In qualche modo ritiene che una rapida sconfitta del nazismo avrebbe potuto creare le condizioni per una rivoluzione inglese con caratteristiche analoghe a quelle della situazione catalana del periodo libertario. Durante il periodo bellico Orwell lavora alla sua tesi del socialismo tradito e riesce a penetrare alcuni degli elementi caratterizzanti della visione staliniana, ovvero un forte nazionalismo russo mascherato di comunismo. Ma la lunghezza e la strage immane della guerra, durante l’invasione fascista dell’Unione Sovietica, portano Orwell a perdere progressivamente l’entusiasmo per una rivoluzione inglese fino ad aderire al Partito Laburista e a diventare il direttore letterario del Tribune, la rivista della sinistra del partito.
Nei molti interventi raccolti nel volume e pubblicati durante il conflitto mondiale è costante la riflessione di Orwell sui temi della libertà di espressione, dei compiti dell’intellettuale, del rapporto con i lavoratori e con gli altri intellettuali, e, in particolare, la declinazione politica della sua esperienza diretta attraverso la convinzione dell’inevitabile “fallimento di ogni rivoluzione che sfugga al controllo delle masse” (p. 15). E per tutta la vita Orwell cercherà un contatto con i poveri e i lavoratori, con quei prolet che sono l’unica prospettiva per l’umanità e la civiltà, e su cui scriverà lapidariamente in 1984, “se una speranza restava, doveva trovarsi fra i prolet”. Per non avere dubbi sulla totale adesione di Orwell agli ideali del socialismo libertario e internazionalista bastano alcune pagine di 1984, come le riflessioni di Wiston Smith quando comprende la bellezza della lavandaia nella sua armonia e forza di corpo plasmato dal lavoro, o ancora nelle riflessioni per cui “i prolet non si erano inariditi, erano rimasti umani”, e poi “i prolet sono esseri umani (…) noi non lo siamo”.
Orwell è un personaggio sempre in crisi di identità, come scrive Manferlotti, una crisi “che nasce dal rifiuto dell’ideologia della propria classe di appartenenza e dal tentativo, non accompagnato dal successo, di entrare a far parte di una diversa ‘comunità’, depositaria di valori più autentici”. Ma questo suo tentativo è un fallimento: antirazzista e anticolonialista mentre è arruolato nella polizia coloniale, combattente di Spagna ma avversario del totalitarismo sovietico, attirato dalle esperienze proletarie ma inevitabilmente segnato dalla sua educazione borghese, scrittore progressista ma in polemica con l’intero mondo intellettuale. Sempre Manferlotti lo definisce “dapprima povero tra gli Eatoniani, poi Eatoniano tra i poveri”, per dimostrare la sua impossibilità a costruire rapporti con gli altri a livello di parità, a entrare a far parte di una comunità senza contraddizioni, e Orwell non riesce neppure a trovare un nome per i propri ideali, in quanto il termine comunismo è stato infangato dall’opportunismo sovietico e dalla sua vocazione nazionalistica, il socialismo stesso è abusato e strumentalizzato in riformismi snaturanti, la democrazia catturata ignobilmente dalle metamorfosi borghesi, la libertà usata per declinare i meccanismi capitalistici e di impresa del liberismo. La stessa critica, limpida e lineare, che rivolge al romanzo Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, è radicale e ne svela le conclusioni conservatrici che stabiliscono l’inevitabile evoluzione della rivoluzione in dittatura. Per Orwell la degradazione della rivoluzione non è affatto scontata.
Nelle sue continue riflessioni sull’impoverimento culturale in corso in Inghilterra, Orwell comprende che l’esperienza totalitaria vuole protendersi fino ai meccanismi biologici di produzione del pensiero e di concretizzazione dell’esperienza mentale attraverso il linguaggio. È un processo che parte dalla mistificazione politica fino alla propaganda, per possedere la mente e irretire la componente biologica dei comportamenti. Nel volume di saggi Inside the Myth. Orwell Views From the Left (curato da Cristopher Norris per Lawrence and Wishart nel 1984) Andy Croft offre una esauriente analisi delle fonti narrative che hanno ispirato Orwell nella costruzione del proprio capolavoro (“World Without End Foisted Upon the Future. Some Antecedents of Nineteen Eighty-Four”). Se prioritariamente va sottolineata una serie di suggerimenti provenienti da Il processo di Franz Kafka, in cui il potere totalitario dell’apparato statale è in grado di modificare le strutture costituzionali e legali, e i diritti delle persone attraverso una tragica parodia del potere giudiziario, la declinazione fantascientifica di Orwell che riguarda i meccanismi di riscrittura del passato e della storia – utilizzati allo scopo di realizzare il totalitarismo assoluto – vede anche ne La notte della svastica di Katherine Burdekin un importante precedente. Burdekin aveva pienamente compreso e illustrato come la dittatura perfetta debba modificare il passato, dominare e violentare la storia, ridurre al minimo la cultura delle masse e iniziare un trasferimento dalla politica al fanatismo religioso. Purtroppo Orwell non riporta nei sui scritti quanto il libro di Burdekin lo avesse influenzato, ma è abbastanza condiviso che abbia letto questa straordinaria opera di fantascienza che racconta della vittoria assoluta del nazismo e di una dittatura capace di durare nei secoli. Orwell trasferisce al comunismo stalinista quella capacità di manipolazione del fascismo europeo che aveva condotto il mondo alla catastrofe con quei riti di massa che erano avvenuti a Monaco, a Norimberga, alle olimpiadi di Berlino, con le folle fanatiche pronte a scagliarsi contro un nemico inesistente occultato nella comunità, una entità nascosta, un traditore. Il corto circuito orwelliano identifica nell’intellighenzia di sinistra il principale responsabile del fallimento del progetto socialista, di quel progresso politico partecipativo a cui non smetterà mai di credere, perché l’intellettuale, a differenza del proletario, ha a disposizione gli strumenti critici per svelare l’inganno che sottrae il potere alle masse per conferirlo al partito, e dal partito all’oligarchia.