Il romanzo di Violette d’Urso, ventiquattrenne francese di nascita, non è una biografia di suo padre – il mercante d’arte italiano Luigi d’Urso, morto quando lei aveva solo sei anni – né un’autobiografia ma, come indica il titolo, è il frutto di un rimescolamento di ricordi dell’autrice, della sua famiglia, degli amici, innestati in una storia in parte vera e in parte inventata. La piccola Anna vive a Parigi e viene a sapere della prematura scomparsa del padre al rientro da una gita: all’incontro, invece che l’elegantissimo e amatissimo genitore, giungono le sorelle e la madre con un’amica – è quest’ultima a comunicarle che, qualche giorno prima, suo padre ha avuto un infarto sul pianerottolo di casa. Da quel momento è inevitabile che il mondo attorno a lei cambi, e immagino sia anche per questo che il libro in Francia è andato in stampa per Flammarion con il titolo Anche il rumore della notte è cambiato che, a mio avviso, trasmette suggestioni più poetiche del titolo utilizzato per la traduzione italiana.
Anna è una bambina di soli sei anni, e a quell’età certamente non si hanno strumenti adatti per elaborare un lutto, addirittura lei è convinta che l’unico modo di morire sia quello di precipitare da un dirupo. È normale che un simile avvenimento lasci il vuoto in chi resta, e che i pochi ricordi dei momenti trascorsi insieme non riescano a colmarlo. Come in natura il vuoto non esiste e ogni spazio viene occupato, Anna riempie questa assenza creando attorno a suo padre una specie di mito che l’accompagnerà fino all’adolescenza.
Quasi maggiorenne, una sera si ritrova a una cena in cui le chiedono qualche dettaglio sulla professione paterna; sgomenta, Anna si rende conto di non saper rispondere e che le resta solo un debole ricordo del padre che, fra l’altro, rischia di dissolversi rapidamente mentre lei ne sente il bisogno, e pure con contorni ben definiti. Decide quindi – dopo aver recuperato i diari paterni, ricchi di appunti e annotazioni – di incontrare gli amici che lo avevano conosciuto e frequentato, allo scopo di afferrare informazioni e frammenti di storie che non ha potuto vivere in prima persona. E così Anna, come Telemaco partito alla ricerca di Ulisse, organizza un viaggio in Italia che inizia da Roma, dove era nato e cresciuto suo padre, per giungere poi alle altre città in cui lui ha vissuto: Bologna, Napoli e Palermo.
Il primo incontro con un amico paterno cambia per sempre la vita della ragazza e l’immagine del genitore. Durante la conversazione emergono vaghe allusioni sulla fine dell’esistenza dell’uomo e, in seguito, fra osservazioni banali come l’abitudine a uscire spessissimo e il dormire durante il giorno, ascolta descrizioni inaspettate (“qualche volta perdeva il controllo”) e verità stupefacenti: la dipendenza dall’eroina e la militanza nella sinistra rivoluzionaria italiana. Come nei film in cui il finale ribalta la storia, costringendo lo spettatore a rivedere tutta la trama, Anna deve fare i conti con uomo diverso da quello immaginato: i ricordi mistificati da bambina vengono decostruiti dalla giovane donna per riuscire a ricreare una relazione col padre.
C’è qualcosa di commovente nella tenacia con cui Anna cerca le tracce del genitore, nel modo di porgere l’altra guancia verso la sofferenza che alcune notizie le provocano, ma è decisa a sapere. E man mano che il viaggio prosegue, si rende conto che non è tanto l’oggetto della ricerca a essere importante, quanto il viaggio stesso che la condurrà a capire – e noi con lei – che la visione che si ha degli altri contiene errori, insuccessi e zone d’ombra inevitabili, e che quanto ci resta dopo la morte di una persona è l’inequivocabile verità di aver semplicemente vissuto: più un’esistenza è entrata in contatto con le vite degli altri, maggiore sarà la possibilità di restare in qualche modo vivi, di mantenere la consistenza nel ricordo altrui.
Il dolore presente in questa storia, la sofferenza che persiste manifestandosi nel corpo in vari modi – così come già raccontò nel 1975 Marie Cardinal in Le parole per dirlo –, per esempio un ciclo mestruale che pare infinito, mettono a dura prova Anna e sottolineano l’innegabile legame tra corpo e anima. Nel proprio racconto – la vita, la morte e il dolore – d’Urso mostra senza veli tutta la sensibilità che origina dal lutto subìto durante l’infanzia e la grande simpatia, provata nel suo pellegrinaggio, per l’Italia e gli italiani.