L’isola contiene catastrofi e anime pericolose, in una bolla dove la cenere piove dal cielo dopo essere stata lanciata in alto dalla Montagna, e dove i corpi transumano da stanze claustrofobiche a terreni ricolmi di macerie e lavori interrotti. Clotilde, Igor, Angelica, sono personaggi ibridi in risonanza tra la materia carnale e la forma di spettri che molto, si può pensare, condividono con la Marabbecca, figura del mito isolano capace di spaventare i bimbi perché stiano lontani dai pozzi, e anche dalle verità nascoste degli adulti.
La coscienza della connessione fra elemento fantastico e natura selvaggia contaminata dal demoniaco fa parte di ciò che Viola Di Grado da molti anni continua a perseguire testimoniandone le insidie: in questa sesta opera in prosa (ricordiamo l’esordio pluripremiato, nel 2011, con Settanta acrilico trenta lana) l’abisso racchiuso nelle viscere dell’Etna sembra inondare i quartieri popolari di Catania per poi trapassare le menti in preda alla metamorfosi.
Tre i protagonisti del teatro fabulistico svolto in Marabbecca. Igor, la cui violenza verso la compagna Clotilde non muta al risveglio dal coma dopo che Angelica, giovanissima ragazza bionda, li aveva fatti andare fuori strada in un “interminabile” e rovente giorno di luglio. Clotilde, minata da sensi di colpa verso Igor e mossa a disordine nel pieno di una passione amorosa che rasenta il culmine proprio verso la responsabile dello schianto, l’eterea e trasparente giovinetta: Angelica, ornitologa la cui magione è abitata da una moltitudine di uccelli in libertà e in voliere, capace di mantenere la propria instabilità emotiva e vitale in un Eden onirico più vicino alle tenebre che al mitico giardino. Igor, custodito in quella casa insieme a Clotilde del tutto incapace di staccarsi dalla fascinosa ragazza, diventa il serpente minaccioso e informe che conduce al nulla.
La due donne vivono in una sospensione che Di Grado ricalca sulle vicende topografiche di una città, Catania, costellata di incantesimi e scongiuri lanciati contro macabre realtà insieme roventi e gelide. La Montagna è l’alto Castello da cui tutti si guardano pur schiettamente presi da feroce amore per essa. In queste trame si dispone la prosa dell’autrice, a cui la poesia deve qualcosa, a cui certi poeti dovrebbero guardare ampliando il perenne dominio dell’io. Laura Pugno, poetessa, è limpida in un suo scritto: qualcuno si accorga quanto nella prosa “corpo e paesaggio” si seducono a vicenda. E diventino traccia di una nuova scrittura immaginativa, seguendo il sapere arcaico rimestato senza sosta dalla materia terrena.
I giorni iniziatici del viaggio (imprevisto quanto tremendo) intrapreso da Clotilde, vanno diritti verso un modus vivendi che assomiglia a una specie di morte in cui i pensieri sussistono ancora, e la visione diventa sempre più “psichedelica”. L’assenza dal mondo è un nascondersi dalla vista della Montagna, pur presente sulla testa di tutti: la perenne caduta della cenere trasforma in polvere la carne. L’apocalisse è portata dalla bellezza “trasparente” di Angelica, e la laboriosità del suo vivere con i volatili, del suo pensiero uniformato verso Clotilde, ineluttabile. L’immagine finale comprende loro due nella stanza degli uccelli, abbracciate per terra: ma nel buio assoluto della notte la Montagna è ancora lì. Sul deserto lavico.