Bocca. Occhi. Ossa. Cuore. Denti. Stomaco. I pezzi di corpo che danno il nome ai capitoli del nuovo libro di Viola Di Grado sono la premessa e il risultato di una dissezione amorosa che indaga e scandaglia con dolcezza e crudeltà una passione vorace e sublime, ma anche meschina e pericolosa come solo l’intrico di dolore e amore sa essere. La protagonista di Fame blu non ha nome. In un Paese, la Cina, dove le persone hanno spesso due nomi – uno cinese e uno occidentale – lei sceglie di scomparire e di farsi chiamare con il nome di suo fratello gemello Ruben, morto pochi mesi prima. Anche la decisione di trasferirsi in Cina, da Roma, è legata a Ruben: era lui che sognava di vivere a Shanghai e di aprirvi un ristorante. Lei, invece, insegnerà italiano, e il primo incontro con Xu, la ragazza di cui s’innamorerà perdutamente, sarà proprio tra i banchi della scuola in cui lavora.
Xu è bellissima e magnetica, irresistibile e autoritaria nel dettare le regole di una relazione totalizzante ed estrema, dove i corpi si allacciano e si feriscono superando ogni tabù, esplorando sentimenti reconditi e zone d’ombra necessarie alla conoscenza e alla definizione di un’identità che sappia affrancarsi dagli stereotipi dettati dalla società per specchiarsi in se stessa e nell’Altro, senza temere le immagini deformate dal dolore che il riflesso rimanda.
Quello di “Ruben” è un viaggio sfrenato negli abissi e negli angoli più bui dell’io, che si traduce nello spazio fisico di una geografia sconosciuta, una Shanghai luccicante e spettrale che ingoia il passato e lo risputa trasformandolo in futuro accecante, accogliendo storie e individui in un magma turbolento da cui solo chi si tuffa al suo interno, o scompare, riesce a salvarsi. L’incontro tra Ruben e Xu è l’urto tra due ragazze fragili, giovani ma con un pesante bagaglio familiare alle spalle, alla ricerca disperata della propria identità, del proprio posto nel mondo, sia in senso letterale (è davvero la Cina il Paese per loro? Lo è forse l’Italia?) che metaforico.
I luoghi hanno una grande importanza nel romanzo: andare, tornare in posti conosciuti o ignoti non ha semplicemente a che fare con uno spostamento fisico, ma con la sfida dei limiti, con la sopportazione del dolore. La Shanghai di Di Grado è ben più di uno sfondo, è un personaggio fondamentale dell’opera, detta l’atmosfera e dà voce e corpo ad azioni che solo lì, tra mattatoi fatiscenti e pub sotterranei per occidentali, possono avere luogo e significato. Shanghai è il cuore pulsante e sanguinante di una narrazione al contempo dolcissima, fragile e crudele, che stordisce e affascina per la voglia di scavare sempre più a fondo, nel tentativo di placare la fame insaziabile che dà il titolo all’opera. Una fame che è fame di affetto, fame di vita, fame d’amore. Ma è anche, ancora una volta nel senso più letterale della parola, fame di cibo: entrambe le protagoniste hanno un rapporto speciale e distorto sia con il cibo, che da nutrimento si trasforma in simbolo di accettazione e rifiuto, che con il proprio corpo, osservato con disgusto o ammirazione, ignorato o riconosciuto come esistente solo in rapporto allo sguardo altrui.
Viola Di Grado firma un’opera complessa e profonda, capace di sfidare i tabù di una società che si dichiara aperta e libera ma che ancora guarda con sospetto al diverso, allo straniero, all’Altro, attraverso uno stile letterario incisivo, di un’acutezza rara, confermandosi ancora una volta una voce importante e riconoscibile nel panorama letterario italiano, come d’altra parte è stata fin dal bellissimo esordio Settanta acrilico trenta lana (edizioni e/o, 2011), che le era valso anche il premio Campiello Opera Prima.