In un periodo in cui la Serie A era in pausa a causa delle misure di contenimento della pandemia, Sperling & Kupfer ha pubblicato un’autobiografia di Giorgio Chiellini, capitano della Nazionale e della Juventus. Il co-autore è Maurizio Crosetti, noto giornalista sportivo esperto di calcio e ciclismo. Non si tratta della prima fatica letteraria di Chiellini: dopo aver esordito per Mondadori nel 2014 con un breve libro dedicato alla figura di Gaetano Scirea (C’è un angelo bianconero, con Pierangelo Sapegno), ha poi pubblicato nel 2016 una sorta di libro intervista, in cui rispondeva alle domande poste dai suoi fan sui social media (The Defender). Del resto, e va detto senza ironia, l’autore si colloca comunque all’interno di un’aristocrazia nel suo ambito professionale, ovvero quella composta dai calciatori in grado di parlare correttamente italiano e di conseguire un titolo di studio universitario: un aspetto che in Io, Giorgio viene rivendicato costantemente come altro lato della medaglia dell’impegno agonistico – in grado di consentirgli un prosieguo di carriera nel ruolo di dirigente calcistico – mentre il basso livello culturale nel mondo del calcio è spesso descritto nel libro come un problema cardinale di questo sport.
Dispiace che Chiellini non abbia voluto aspettare la fine della carriera per dare alle stampe un testo del genere: il fatto che si tratti di un instant book uscito in piena emergenza non giova alla qualità dell’opera. La cornice narrativa dell’amarcord di Chiellini – con cui attraversa gli episodi salienti della sua carriera e i rapporti con compagni di squadra e allenatori – è il suo recente infortunio al ginocchio con relativa riabilitazione e ritorno in campo nei giorni immediatamente precedenti al blocco del campionato a fine febbraio. Le parti però potenzialmente interessanti del libro – che lasciano trapelare la grande competenza di Chiellini nella sua professione – sono davvero striminzite e soffocate da uno stile (prodotto ad hoc, beninteso) che sembra pensato per i tifosi tredicenni della Juventus. Molti aspetti sono poi dati per scontati e chi non segue l’attualità calcistica rischia di confondersi nella lettura, anche perché il libro ha una struttura un po’ disordinata e ripetitiva.
Riflessioni assolutamente interessanti, soprattutto per i profani come il sottoscritto, sulla reale vita professionale di un calciatore di Serie A o sui meccanismi economici che regolano una macchina mostruosa come quella del calcio contemporaneo, restano purtroppo sullo sfondo, schiacciati da una continua autocelebrazione del suo percorso professionale e personale. Certo, ne esce il ritratto di un professionista serio e di un padre e marito amorevole, nonché di persona solidale e con i piedi per terra, però sono questioni tutto sommato banali e di poco interesse, persino dal punto di vista della lettura trash.
Nonostante il disprezzo ostentato per Balotelli (non certo dovuto al colore della pelle), Chiellini si dimostra molto rispettoso per gli altri atleti, anche rivali, al di là della nazionalità e delle storie personali, nondimeno trapela in tutta l’opera un sordido disprezzo per la sconfitta, i perdenti e persino gli avversari storici come Inter o Napoli. Il lato negativo del libro (o quello che ne giustifica la lettura ai nostri fini, se vogliamo) è proprio questa ossessione per la vittoria – continuamente ribadita in numerosi inserti motivazionali da spot della Nike – che sembra a tratti antisportiva e non si spiega in un professionista del suo calibro. Ammesso che sia una posa ad uso e consumo dei fan, il panegirico del modello aziendale Juventus e della famiglia Agnelli è costante: vincere è l’unica cosa che conta. Al di là di quali siano le intenzioni degli autori, vista dall’esterno la Juve degli Agnelli – come descritta su Io, Giorgio – sembra un incrocio fra Scientology e la Megaditta di fantozziana memoria. A Calciopoli sono dedicate due righe, con la solita retorica degli scudetti “vinti sul campo”: ora, chiaramente non ci si può aspettare che un uomo d’azienda come Chiellini possa narrare i lati oscuri di una società calcistica e di una famiglia che hanno fatto la storia d’Italia, né tanto meno concentrarsi sui coni d’ombra di uno storico compagno di squadra come Gigi Buffon, eppure, l’apologia ossequiosa di Luciano Moggi (“una persona che sapeva tenere le redini di una società”) risulta davvero troppo anche per gli stomaci più forti, a prescindere dalla fede calcistica.