Il volume di Vincenzo Ruggiero Violenza politica. Visioni e immaginari ha sicuramente un merito. Pone al centro della riflessione il tema della violenza, non come accidente patologico delle pacifiche democrazie, ma come fatto strutturale e determinante dei destini collettivi. Violenza come normalità e non come eccezione, come oggi invece si tende a pensare, individuando nella violenza addirittura una categoria storiografica che divide i sistemi politici “buoni” da quelli “autoritari”.
Citando la filosofa femminista J. Butler, l’autore afferma che i soggetti prendono forma nei contesti violenti. La violenza è dunque insita nel funzionamento delle strutture sociali, e solo in seguito negli individui. L’ordine sociale si fonda sull’appropriazione violenta della ricchezza, sullo sfruttamento delle persone, sull’inferiorizzazione razziale e di genere. Solo una visione ingenua vede gli stati come estranei alla costruzione di rapporti violenti. Ruggiero declina la violenza in diverse forme, tutte interdipendenti le une dalle altre. Esiste una violenza sistemica, una istituzionale, una violenza di gruppo, una legata alla lotta armata, esiste il terrorismo, la violenza religiosa e la guerra. Di tutti questi tipi di violenza Ruggiero compie una attenta disamina, utilizzando fonti molto diverse. Oltre agli studi di criminologia, di cui è autorevole rappresentante, utilizza gli studi dei sistemi sociali e della politica, del diritto, oltre che della letteratura. Uno sguardo ampio che definisce la violenza sistemica come riproduttrice di disuguaglianze e ingiustizie, in cui il degrado sociale non è altro che la conseguenza diretta del funzionamento ordinario della convivenza.
Violenza ancora più insopportabile, perché viene data come elemento naturale e immodificabile delle relazioni sociali. La violenza sistemica, secondo l’autore, risiede nel fatto di poter decidere chi può vivere e chi deve morire. La violenza istituzionale è invece la possibilità della classe dirigente di infrangere le regole che essa stessa si è data. Il marchese de Sade l’aveva descritta, quando scriveva che la sovranità dell’élite risiede nella capacità di violare ogni proibizione.
Le violenze “dall’alto” inevitabilmente sollecitano risposte conflittuali di diverso tipo. L’autore parla della violenza delle folle e di come esse siano state giudicate da politologi e letterati, delle organizzazioni armate, più o meno collegate con movimenti popolari pacifici, analizzando le vicende dell’African National Congress sudafricano e le politiche di Mandela, il terrorismo, la violenza insita nella religione, e infine la guerra, con il suo portato di violenza sulle donne. Ruggiero si sofferma sugli stupri di guerra, arma micidiale nelle mani delle truppe alleate alla fine del conflitto mondiale, sulla violenza perpetrata da soldati americani in Vietnam, su quanto accaduto nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, ma anche sulle violenze perpetrate ai danni di uomini detenuti nei lager per migranti in Libia.
Lo scopo della violenza sessuale è il rafforzamento del sentimento identitario patriottico del carnefice e l’annichilimento della vittima e della sua comunità di riferimento. Negli stupri di guerra emerge il disprezzo che sotto traccia segna ancora la relazione tra uomo e donna. Sulla lotta armata Ruggiero afferma che essa ha in alcuni casi una pericolosa tendenza a separarsi dai movimenti che pure l’hanno all’inizio riconosciuta.
Il distacco dai movimenti porta a una auto referenzialità che si concentra nella dimensione della clandestinità, nella ricerca di armi, appartamenti, luoghi di rifugio, perdendo di vista gli obiettivi che ne erano all’origine. Da qui la critica alle Brigare Rosse, mentre il movimento anti-apartheid del Sud Africa, pur utilizzando la violenza armata, è riuscito ad avere un collegamento stretto con il movimento antirazzista, riuscendo a evitare per quanto possibile la guerra civile e inaugurando una politica di riconciliazione nazionale. È vero – si chiede Ruggiero – che il culmine del tentativo di rovesciamento dei rapporti sociali passa necessariamente per l’esercizio della violenza? La violenza è lo sbocco naturale del cambiamento? Per l’autore il cambiamento può nascere da sentieri più tortuosi, come insegna Robert Musil ne L’uomo senza qualità, in cui afferma che l’azione collettiva, compresa la violenza, porta spesso a risultati minimi, invece i cambiamenti quotidiani nei comportamenti e nei valori possono produrre innovazioni radicali. Musil cita nel romanzo proprio la lotta delle donne.
Anche per Ruggiero il cambiamento può avvenire per rotture culturali: la rivoluzione francese fu vinta dall’Illuminismo piuttosto che dall’insurrezione popolare. Concludendo il suo ragionamento, l’autore fa nuovamente riferimento a Butler che afferma che forse proprio perché ci formiamo attraverso la violenza, abbiamo la responsabilità pressante di non riprodurla. Per farlo è necessario che la democrazia riconosca la legittimità dei conflitti, in cui i movimenti di massa possano crescere e acquisire la capacità di mediazione e contrattazione dei loro interessi. Le democrazie che radicalizzano il loro potere estremizzano il dissenso. Solo il riconoscimento dell’esistenza inevitabile di interessi diversi aumenta la competenza politica degli attori in gioco. Proposta praticabile o mera utopia? Solo la riflessione collettiva e lo sviluppo dei movimenti sociali potrà offrire una risposta.