Era da tempo, direi anni, che avrei voluto leggere qualcosa di Vincenzo Pardini. Ne ho sentito parlare diverse volte, spesso da lettori di cui mi fido, e sempre in maniera positiva. Recentemente, navigando tra le uscite della peQuod, che non è la prima volta che lo pubblica, sono rimasto incuriosito da questo breve romanzo. Personalmente non ricordo di avere avuto troppi primi incontri così esplosivi, con scrittori di tale potenza e talento. Pardini non ama la ribalta, impossibile vederlo in occasioni mondane e nelle rare interviste che ha concesso ribadisce sempre il rifuggire dagli schemi e luoghi comuni.
Questo romanzo travalica generi e convenzioni, è un atto di accusa contro la società contemporanea: come tutti i capolavori – perché questo romanzo lo è –, non teme il passare del tempo, il cambiamento di stili e mode, la trasformazione della società o l’evoluzione della tecnologia. Resterà un testo che a distanza di anni non perderà neanche un grammo della sua forza devastante. Non è la moda che insegue lo scrittore toscano, e tantomeno il lettore: racconta una storia cruda e crudele, estrema e inquietante, perfettamente collocata nel periodo storico che stiamo vivendo, pandemia compresa, smascherando senza pudori l’inettitudine e la meschinità di oggi.
Con stile austero ed essenziale, Pardini ci racconta di una massa guidata da forze oscure e apparentemente invisibili, di un gregge che si abitua a qualsiasi bruttura pur di sopravvivere, che si volta dall’altra parte fino a che le disgrazie non lo toccano continuando a camminare sopra le macerie senza curarsi dei gridi di aiuto di chi si trova in difficoltà.
In un ambiente più ballardiano di come potrebbe apparire – lo spazio interno dei personaggi viene modificato dai cambiamenti dell’ambiente –, e in un’atmosfera hitchcockiana figlia di uno dei capolavori del regista americano, Gli uccelli, un giorno viene ritrovato il corpo di un ciclista in un sentiero appena fuori di un paesino di montagna a cui sono stati asportati gli occhi. Le ipotesi sull’incidente sono diverse ma si rivelano tutte infondate quando il fenomeno si ripete: è uno strano uccello, dotato di quattro ali e di una specie sconosciuta ad attaccare le persone e cavargli gli occhi per cibarsene. Molti dei sopravvissuti all’attacco, senza più la vista, muoiono dopo pochi giorni tra atroci sofferenze a causa di un virus ignoto. La preoccupazione comincia a montare nella popolazione, si comincia la caccia al rapace e a dotarsi di occhiali, ombrelli e caschi per evitare di essere attaccati, ma il campo d’azione delle incursioni si allarga, fino a coinvolgere l’intero globo e la velocità con cui si sposta l’assalitore è incredibile. La situazione degenera quando appaiono stormi di uccelli neri che attaccano animali selvatici e domestici lasciando di loro solo lo scheletro. Le autorità, inermi, raccomandano la calma e l’adozione di tutte le precauzioni possibili, ma la soluzione non è di uccidere i volatili, che si rigenerano dalle loro ceneri e aumentano di giorno in giorno cominciando ad attaccare e spolpare anche gli umani. Senza mai toccare gli occhi, forse un gesto di rispetto e devozione verso il primo rapace. È un cronista locale del paese dove è apparso l’uccello per la prima volta a raccontare lo svolgersi dei fatti, e dopo averlo cercato e incontrato alcune volte, lo sfida apertamente, ma l’uccello sembra voler evitare lo scontro diretto.
Un racconto sempre sul filo della tensione esasperata, con una visione ampia e precisa, una testimonianza delle reazioni scomposte di fronte a eventi così estremi e drammatici e dell’incapacità delle autorità di fronteggiare eventi straordinari. Indifferenza e cecità, non solo visiva, conformismo ed egoismo, falsità e inadeguatezza sono i sentimenti di cui trasuda il testo. Scevro da ogni morale, Pardini ci porta dentro una società terribile che corre verso la propria autodistruzione. E non è un monito quello dell’autore, ma una constatazione.