La storia è quella di un giovane, e neppure poi tanto, archeologo o aspirante tale, e del suo disamore per l’archeologia. Peregrinando da uno scavo universitario all’altro (sulla scia di un famoso archeologo, Filippo Coarelli, docente di Storia romana e Antichità greche all’Università di Perugia, oggi in pensione) vive una imperscrutabile storia d’amore e di disamore subíto, ma è storia non sviluppata, per scelta o per caso. Il centro di tutto è l’archeologia, principalmente quella universitaria battuta dal picaresco protagonista di matrice autobiografica, che ne fa una critica spietata. Una disciplina dalla tremenda e ingannevole natura, un vezzo riservato ai ricchi del quale è impossibile campare. Un’archeologia un po’ stereotipata con alla base la passione e il sogno; la polvere, la fatica, il sacrificio. Dove la precarietà e le serate alcoliche sembrano necessarie. Inevitabilmente, poi, accade che il reale confligge con il sogno e non ne è mai all’altezza, e quell’archeologia resta una sbornia esistenziale che impedisce di trovare una collocazione nel mondo, un ruolo nella società.
In questa versione cartonata della professione le donne sono giovani comparse destinate ad avventure col professore di turno e con i capi degli scavi, così sottratte agli studenti e ai dottorandi poveri come il nostro, oppure concupiscono e abbandonano il protagonista: cosí fa la Spagnola, come la chiama la madre di lui in quanto “sua avversaria in amore e identificata geograficamente come la pandemia del millenovecentodiciotto”.
I siti citati sono tutti noti (in Italia Sepino, Falacrine, Nemi, Fregellae; in Spagna Tiermes nella Castilla Y Leon dove il protagonista vive un’esperienza in cooperativa). Lui vaga di scavo in scavo, incapace di adattarsi – riconosce – “alle richieste dei direttori di scavo, cui non interessava avere studenti di talento ma gente obbediente che riconoscesse e ossequiasse l’autorità dei capi”. Sugli scavi l’elemento principale è l’assenza di dignità, che arriva a esiti grotteschi e fantozziani come quando su uno scavo arriva in visita il professore di un’altra università o qualche ospite illustre: “ed ecco che parte un movimento alla ricerca dei reperti migliori da esporre, e quando arrivano gli ospiti, li si porta in escursione sullo scavo, e gli si mostra la ceramica e, se ci sono, i frammenti di bronzo, che sono materiali che significano antichità e prestigio, e le monete, che suscitano sempre grande gioia; e se il professore si ferma a cena con il suo codazzo, vedrete che si allestiranno delle belle tavolate con mezzo tavolo occupato dal prof e dai loro speranzosi epigoni, e l’altro mezzo dalle seconde file della speranza e poi, sempre più lontani, i valvassini e i militi e i servi della gleba, la cui speranza sarà di sedure in futuro alla destra del prof”.
In questo flusso di coscienza o di incoscienza un po’ autocompiacente, a tratti divertente, spicca la scena alla Pulp Fiction del trasporto all’ospedale del professore Coarelli, che gli imbratta tutta l’auto di sangue dopo essersi tagliato il polso crollando su una damigiana. Quel Coarelli che lui segue come se fosse un genio, non per aspirare un giorno di sedere alla sua destra ma per sete di conoscenza; lo segue perché vorrebbe sapere tutto quello che sa lui seppur tra tutti i suoi allievi si riconosca essere il peggiore.
L’archeologia, pure quella italiana un po’ malandata, non è messa così male come la racconta l’alter ego di Scalfari che, alla fine, casca nel complesso dell’archeologo che non vuole essere operaio, come se lavorare con la pala il piccone e la carriola significasse fare archeologia di serie B, come se quello in fondo lo potessero fare tutti mentre ragionare sul sito nel suo complesso, no. Come se il lavoro manuale richiedesse meno maestria e lucidità di quello intellettuale. In questa visione c’è qualcosa di malinconico, forse persino scusabile, ma anche di vetusto. Eppure la critica del “sistema archeologia” è reale, non scontata, incide e turba e questo grazie proprio alla debolezza e alla discutibilità del protagonista. In quella sua stanchezza, che poi diventa disgusto, per quel mondo, c’è la tristezza di un uomo che nell’archeologia cerca ingenuamente la fuga e il disimpegno ma ritrova in essa i meccanismi di potere, le gerarchie, gli obblighi, le rappresentazioni del mondo reale; c’è l’inciampare nel malinteso del passato come favoletta, con protagonisti idoli e feticci da sacralizzare.
In questo romanzo di non formazione, dove il percorso del protagonista è senza sbocchi e il taglio netto che si intuisce, per quanto non descritto – il racconto avviene chiaramente da un livello temporale posticipato rispetto a quello degli eventi narrati – appare come l’unica possibile soluzione al vorticoso girare su se stesso, a valere è soprattutto l’interrogativo relativo al senso del vivere il presente scegliendo di non accantonare il passato; di riesumarlo, votarsi alla morte e lasciare che il presente (e la Spagnola) vada alla deriva. Non è possibile dimostrare la necessità di diseppellire per mesi cadaveri di Visigoti senza nome, avendo di fronte “un lavoro enorme, un enorme e folle lavoro che nessuno potrà mai fare, e nessuno mai potrà nemmeno iniziare, e questo lavoro sarebbe l’impossibile lavoro di svuotare l’enorme cimitero percorso da noi viventi, perché noi viviamo in un gigantesco cimitero, di cui noi siamo le tombe, sì, noi stessi siamo il tumulo della nostra cultura, fatta di ricordi passati e di attimi trascorsi, che in un attimo sono già morti, e sebbene noi siamo cose vive, e cerchiamo di fare cose che ci rendano ancora più vivi, e bramiamo la vita, lei ci sfugge, e noi camminiamo trasportando con noi le nostre cose morte, e raccontiamo e parliamo di cose morte, e il presente si fa impossibile”.
Impossibile anche perché impostato su un passato di cui non si ha il coraggio di dire (è un po’ il grande spauracchio della disciplina e della professione dell’archeologo) che è quasi del tutto inventato: “tutti quelli che si occupano del mondo antico dovrebbero essere consapevoli di occuparsi di un mondo che non esiste, e chi racconta il mondo antico, a scuola o in televisione (…) racconta un mondo che non esiste, e infatti non si capisce tanto bene a che scopo lo racconti, perché se pensa di fare una cosa utile, e che dalla storia si possano trarre insegnamenti ed esempi, chi racconta e spiega la storia pensa qualcosa di evidentemente imbecille, perché l’uomo non impara dagli sbagli ma impara gli sbagli”.
Impara l’inevitabile intrusione del presente nel passato, prima ancora che il contrario; l’impurità della favola dell’antico; e tutto quell’intenso e spudorato piacere, velato di nonsense, di ribaltare la terra sotto i piedi alla ricerca di un ennesimo pezzettino di materialità perduta, scartata, senza nome.