Per Amitav Ghosh (La grande cecità, Neri Pozza, 2017), uno dei maggiori scrittori indiani viventi, la fantascienza è stata l’unica forma di immaginazione letteraria in grado di proiettarsi oltre il confine tra natura e cultura che la modernità si era autoimposto. A lungo additata come suburra popolata da robot e extraterrestri, la science fiction è anche il solo genere che, secondo Ghosh, abbia saputo ascoltare “la voce della terra e della sua atmosfera” proiettandosi nei tempi lunghi del pianeta per raccontarne le mutazioni e i cambiamenti climatici in corso.
Le parole di Ghosh tornano in mente poco dopo aver preso in mano Avatar, un’antologia di racconti indiani contemporanei, ritrovandosi in mondi dove la vita e l’intelligenza – umana, biologica o meccanica che sia – si sono adattate da tempo alla vita segreta delle piante con cui hanno imparato a convivere per trasmettersi codici e saperi, quando non hanno direttamente preso a modello la coscienza vegetale. Ai protagonisti di Avatar è già successo: quando interagiscono con un ambiente retina recognition che li discrimina, con robot dalle sembianze di un boy toy, con i microbi del proprio microclima domestico o con la mutazione che li sta fatalmente risucchiando in un destino arboreo nel grembo di Madre Natura, non sono più attori “umani”, al centro di universi da plasmare, saturare o avvelenare, come individui e come specie confidenti nella propria superiorità. Sono semmai partner e companion di intelligenze artificiali e/o vegetali, ammesso che la distinzione abbia ancora senso (le altre specie animali superiori, quando non estinte, non hanno apparentemente molta voce in capitolo, ndr). In un mondo di filosofi – Avatar resta un’antologia di fiction con un taglio fortemente speculativo – saremmo a metà strada tra il futuro ibrido e multi-agente, da Internet-delle-cose, descritto da Luciano Floridi e la metafisica della mescolanza (l’alleanza umano-vegetale) ipotizzata da Emanuele Coccia.
I racconti dell’antologia sono (quasi tutti) originali, commissionati a una decina di autrici e autori di fantascienza provenienti dall’India: molti con storie personali cosmopolite, alcuni con nomi ormai noti nel genere come Vandana Singh, Anil Menon, Manjula Padmanabhan, Rimi B. Chatterjee e S.B. Divya, quasi tutti amanti del dettaglio tecnico-scientifico; sono approdati alla letteratura fantastica passano day jobs spesso prestigiosi, con cui hanno nutrito il loro lavoro letterario: una carriera da ricercatrice scientifica o una cattedra universitaria, un’attività da pubblicitario o da traduttore, scrittura teatrale o per una striscia a fumetti. In sette casi su nove si tratta di scrittrici, i maschi sono solo due, a cui i curatori di Future Fiction hanno sottoposto un ventaglio di temi tecnologici stringenti, una scelta che non è affatto un particolare in un libro che ha l’ambizione di sondare l’immaginario che sta cambiando un subcontinente di un miliardo e mezzo di umani.
L’immagine del futuro è ramificata e frattale, ma insospettabilmente nitida, almeno nella la sua narrazione tecno-popolare. La modernizzazione proietta l’India e la sua civiltà millenaria ai vertici della società post-umana, accanto ai partner cinesi con cui si combatte l’estinzione climatica (in “The Silk Route” di Giti Chandra), spesso in un clima di ottimismo, da classe riflessiva (ne “l Microbiota e le masse” di S.B. Divya o in “Upgrade” di Padmanabhan), quasi sempre confidenti nei mezzi della scienza e delle nuove generazioni (“La rete di Indra”, di Vandana Singh). Alle spalle c’è il magazzino mitologico della poesia e dell’epica indù, dove reincarnazioni e teleporting spazio temporali sono di casa da 3000 anni, come dalla vena scientifico-divulgativa che ha ispirato le origini della fantascienza indiana, nel periodo vittoriano e post-coloniale. Con poche eccezioni, (“L’uomo senza quintessenza” di Anil Menon) l’eco della distopia si è smorzato e quasi definitivamente spento, non perché la società sia diventata perfetta, ma perché migliorarla sembra uno spreco di energie di fronte alla dimensione delle sfide tecnologiche e ambientali da cui dipende la sopravvivenza delle specie, Nei casi estremi, pur di scampare all’estinzione si può arrivare a ri-programmare l’evoluzione (“Paused” di Priya Sarukkai Chabria) clonando strani esseri conchiglia, ma in generale l’ibrido uomo/natura/macchina ha dato vita a una nuova sensibilità, dove “ragione e sentimento”, non necessariamente in quest’ordine, saranno ancora una volta la nostra bussola.
Edizione bilingue con racconti di Anil Menon, S.B. Divya, Shikhandin, Vandana Singh, Rimi B. Chatterjee, Manjula Padmanabhan, Shovon Chowdhury, Priya Sarukkai Chabria, Giti Chandra.