Premessa: chi scrive la recensione non ha visto la mostra. A prima vista potrebbe sembrare insolito e forse un difetto. In realtà i cataloghi continuano a girare ben oltre il periodo limitato dell’esposizione e in breve tempo si emancipano, scrollandosi di dosso quell’appendice inizialmente tanto ingombrante. Vita Dulcis è la visione personale dell’antichità classica ideata da Francesco Vezzoli per Palazzo delle Esposizioni (Roma, 22 aprile – 27 agosto 2023), insieme all’archeologo Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano, con l’allestimento di Filippo Bisagni e le luci disegnate dal direttore della fotografia Luca Bigazzi.
La prima parte del catalogo contiene i contributi di Cristiana Parella (un’intervista all’artista), di Stéphane Verger sulla “inesauribile modernità dell’antico”, di Nicholas Cullinan sulla contrapposizione “antico e moderno” nell’arte (su quanto l’antico sia stato strumentalizzato, ad esempio dal fascismo, e preso a prestito da tante correnti artistiche, dalla Metafisica all’Arte Povera), di Filippo Bisagni sull’allestimento e di Donatien Grau (“La storia vista di spalle”). Quest’ultimo testo è focalizzato su una stanza della mostra dedicata ad Antinoo, giovane favorito dell’imperatore Adriano. Entrando nella sala il visitatore per prima cosa poteva vedere un famoso busto del giovane (collezione Boncompagni Ludovisi, da Palazzo Altemps) e, di spalle, sei uguali repliche, opere di Vezzoli: sul volto di ciascuna, saette colorate rosse nere e blu che ne spezzavano il candore, ispirate a David Bowie/ Ziggy Stardust.
Fissava il volto dell’Antinoo originale, con languore malinconico, un autoritratto dell’artista in marmo di Carrara. Nella sala anche un busto di Sabina, moglie di Adriano, del II secolo, e un torso femminile acefalo che si abbraccia, di età imperiale. La storia vista di spalle è seducente, scrive Grau, mentre la vista frontale di Antinoo in versione rockstar dovrebbe, potrebbe, turbarci. Grau interpreta le scelte di Vezzoli come un tentativo di rileggere il classico e di spezzare le immagini archetipiche (le statue bianche di winckelmanniana memoria) che rendono il passato noioso e artificioso: “Il classico” – scrive – “era un canone. Pur essendo maturato negli anni del postmoderno, che nella politica italiana vedeva il trionfo dell’immaginario televisivo di Silvio Berlusconi, Vezzoli non si limita a registrare la disperazione del postmodernismo. L’antidoto alla postmodernità è il ritorno al classico, attraverso l’analisi della resistenza che oppone alle immagini archetipiche che di esso ha prodotto la modernità. Se si afferma che il classico non era puramente classico, che quindi non era un’ideologia, può forse esserci ancora spazio perché la postmodernità non sia puramente sé stessa e di conseguenza non conduca soltanto alla disperazione”.
Il catalogo ha il merito – non è di tutti – di rendere chiare l’organizzazione spaziale e la distribuzione dei contenuti della mostra. Nella sala introduttiva (la Rotonda) è stata riproposta una selezione di sei sculture luminose di grandi dimensioni (figure femminili classiche con volti di star contemporanee del cinema) che Vezzoli aveva esposto nel 2012 (progetto 24H Museum, Parigi): un incrocio di epoche e di donne, tutte con gli occhi sostituiti, tramite collage, da quelli della madre dell’artista. Le altre sale erano ciascuna dedicata a un tema: la guerra, Antinoo (e in generale l’amore), la donna e la femminilità, la morte, l’erotismo associato alla satira, il potere e infine l’estetica del frammento.
Tra le sculture antiche esposte, alcune erano molto note, come il citato busto di Antinoo, di cui Verger racconta la storia complessa: di età romana sono il collo, l’inizio del petto, la parte posteriore della testa, un po’ di capigliatura e qualcosa della guancia sinistra, mentre il resto è la creazione di uno scultore anonimo del Settecento. Molti erano i reperti frammentari (come diversi elementi architettonici usciti da una calcara dell’area romana della Crypta Balbi), alcuni scelti per la forma evocativa (frammenti estetizzati). Certi manufatti non erano mai stati esposti (ad esempio gli ex voto raffiguranti organi genitali femminili, in terracotta, di IV-II sec. a.C., conservati nei depositi del Museo Nazionale Romano). Ai reperti antichi erano alternate opere e installazioni di Vezzoli, spesso innesti tra antico e moderno. Nella sezione dedicata al femminile, ad esempio, si poteva vedere un pastiche (con rimando esplicito a Kim Kardashian) di testa marmorea del III secolo su replica in bronzo ingrandita della Venere paleolitica di Willendorf, e una testa di donna anziana di epoca Flavia associata a una riproduzione in marmo rosa del torso di Venere di Prassitele; oppure, nella sezione del potere, teste di Marco Aurelio e Domiziano inserite sul busto di un corpo femminile. In tutte le sale accanto alle opere erano riprodotti spezzoni cinematografici di grandi classici della storia del cinema (da Spartacus a Cleopatra a Il gladiatore). L’uso del cinema ha determinato una certa direzione nell’allestimento (ambienti con pareti e moquette nere, schermi incorniciati da tende in velluto rosse) e del catalogo, la cui parte centrale comprende un ampio corpus di fotografie dell’allestimento opera di Daniele Molajoli, su fondo nero. La terza parte del volume propone invece, in piccolo e in scala di grigi, la composizione di ciascuna sala e le opere, purtroppo non proprio tutte.
Vita dulcis è la latinizzazione del film di Fellini. È innegabile che il cinema, come dichiara Vezzoli nell’intervista, “abbia affrontato l’immaginario classico con più libertà. In quanto industria si è sempre posto meno problemi sia etici che concettuali, leggendo la storia romana con un’attitudine assolutamente disinvolta, in alcuni casi fin troppo”. Il cinema d’altra parte ha il gioco facile, perché non usa gli originali: usa le riproduzioni e introduce il movimento. Nella parte di mostra non cinematografica l’artista cerca di rendere moderni gli immobili reperti archeologici, in qualche modo di liberarli dalla loro pesante materialità, agendo sugli originali (principalmente per accostamento, per ossimoro con manufatti moderni) e su copie degli stessi. Lo scopo è costruire una narrativa per il pubblico, pur trattandosi di una narrativa intrisa di personale, perché, come ricorda l’artista, “racconto la storia come l’ho interpretata io”.
Nella reinvenzione e integrazione delle sculture antiche messa in opera da Vezzoli in qualche modo, secondo gli autori del catalogo, si prosegue la storia complessa e la continua ridefinizione degli originali già messa in atto in antico. Verger paragona il trucco-lampo di David Bowie sulla faccia di Antinoo a un segno di contemporaneità come lo sono stati, nel XVIII secolo, gli interventi di completamento del busto originale. Forse però ci si può domandare se, in questo caso, l’intervento dell’artista, più che all’opera di un artigiano che ridà un’unità a dei frammenti scomposti (certo prendendosi delle libertà), non sia piuttosto equiparabile a una forma di reimpiego ad uso personale. Un po’ come quando si tagliano i capelli alla Barbie e con il pennarello le si disegna il rossetto: per usarla, per renderla propria, per giocarci con più gusto. Un comprensibile adeguamento alla propria individualità. Ma il punto è: questo gesto ci avvicina all’antico? Un gesto che appare quasi di disperata impotenza (la disperazione postmoderna paventata da Grau), oggi che gli originali sono per lo più in collezioni pubbliche e che il sistema di tutela e le teorie del restauro impediscono interventi di completamento, di fatto di ricreazione, come quelli effettuati dall’antichità sino alle soglie dell’età moderna. E ancora: lo smalto per unghie che ritocca un piede votivo in argilla del III secolo a.C. (Another Pedicure, ultima sala), libera davvero quel frammento di antichità e lo avvicina a noi, o alleggerisce soltanto chi ha una visione così conformista a artificiosa dell’antichità classica da esserne piacevolmente scandalizzato?
Si domanda Cristiana Perrella, descrivendo la sezione del potere, “quali sono le risposte estetiche a interrogativi ancora attuali che ci vengono offerte da queste immagini? Cosa le rende ancora in grado di parlarci, cosa ripetutamente ci conduce o ci ha condotto a tracciare folgoranti immedesimazioni o traduzioni dell’antico nel corso dei secoli?”. Di rimando ci possiamo chiedere: siamo sicuri che l’antichità classica parli di noi e a noi? Che le grandi pulsioni siano rimaste le stesse, la guerra l’amore l’erotismo la femminilità il potere?
Se non si tenta di rendere l’antico comprensibile si è giustamente tacciati di essere reazionari o di far parte, per dirla con Marinetti (Manifesto del Futurismo, 1909), di tutta quella “cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari”. Eppure, ribaltando una abusatissima frase di Italo Calvino (“un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”) e traslandola all’antichità materiale, il dubbio, in via ipotetica, potrebbe anche venirci: che il classico possa non avere più nulla da dirci. Dovremmo accettare, sempre in via ipotetica, il suo diritto a starsene zitto; o tutt’al più chiederci se non dica qualcosa che non possiamo capire, o non vogliamo, così presi come siamo a farlo parlare forzatamente il nostro linguaggio presente. Ci si chiede quando un artista giocherà su questa diversa ammissione: che l’antico non ci sia familiare né contemporaneo; quando lavorerà sull’incommensurabile distanza che ci separa e differenzia dal passato.