Franco Arminio, Resteranno i canti, Bompiani, pp. 160, euro 15,00 stampa, euro 7,99 eBook
A distanza di un anno da Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere, 2017), Franco Arminio, prosatore e poeta davvero singolare nel panorama italiano, torna con una raccolta poetica nata anche dalla sua continua attività di condivisione di versi attraverso il social network: dove lettori e lettrici contribuiscono con feedback istantanei al farsi della parola poetica.
La sofferenza antropologicamente quasi inestirpabile delle raccolte precedenti – Stato in luogo (Transeuropa, 2012) o le Cartoline dai morti (tre volumi usciti tra il 2010 e il 2017 per Nottetempo e Pellegrini) – ha lasciato il posto ai versi d’amore. Contrappunto di questo amore sono la morte e la decadenza corporea: “stare nel guasto della vita e cercare di ripararlo. Ho creduto più alla scrittura che agli incontri. Adesso credo ancora alla scrittura, ma credo anche agli incontri, può essere un albero in mezzo alla campagna, può essere una donna”. La morte è onnipresente, come un’interruzione inaudita, attesa con terrore.
Nella sezione centrale dal titolo “Terre dell’osso”, l’autore torna ai suoi amati paesi, luoghi della sparizione che chiedono attenzione per la loro radicale umanità: “I paesi si salvano con gli occhi. / Prima bisogna guardarli / come un uomo giovane / guarda una donna bellissima”. La poesia, dunque, indugia su ciò che rinsecchisce, sull’evanescente: “Sauro, Agri, Basento. / Nomi di fiumi ormai scarni / su cui non mangia più nessuno”. E nel momento stesso in cui si celebrano queste figure della desertificazione esistenziale, si resiste facendo poesia: “è la terra dei nostri canti”. Del resto, “Paesologia” – singolare disciplina inventata da Arminio un ventennio fa – significa “Portare notizie dalla desolazione”, perché non esistono posti che non non hanno nulla da raccontare, che sono condannati all’insignificanza. Questi versi si rivolgono “al grano che cresce / sulle frane”, la vita ostinata nelle fessure dell’impervio. Come la vita degli “Emigranti” dell’omonima sezione, dove l’uso intensivo di ripetizioni e di liste di nomi, cognomi, paesi e mestieri di chi è emigrato restituisce un effetto di verità catartica: uno squarcio profondo nella trama delle mobilità umane nella quale siamo intessuti anche noi, da generazioni.
Dai versi di Arminio emerge un modo di abitare il Sud che non si arrende davanti alla fine, neanche nella sconfitta storica. C’è una sorta di sopravvivenza dolorosa ma attenta alla vita: ai respiri flebili, alla leggerezza di un “ponte di spaghi”, ai cani randagi, all’inconsistenza del “puro fogliame”.
Per Arminio la poesia è una forma insieme sublime e materica di ‘evasione’: non nel senso di una distrazione, di un passatempo appena appena più elevato, ma nel senso di esodo e sottrazione da un ordine del discorso schizofrenico e violento che predica, per esempio, il marketing territoriale di luoghi da salvaguardare per l’industria turistica mentre ne devasta altri passando con la ferocia della ruspa. La poesia diserta, sposta le parole del lessico dominante: le trasporta – come in un costante esercizio metaforico – dal campo mortifero dell’eternità promessa dal mercato e dalle merci a quello vitale e terribile del tempo che passa, delle relazioni inesorabilmente imbrigliate in corporeità decadenti.
La poesia in prosa “Istruzioni per l’uso” – dove l’autore scrive che “Amare i versi tiene lontane le malattie” – chiude una raccolta emotivamente impegnativa dove l’ipocondria incontra la libertà dal tempo, la paura della morte la liberazione nelle pieghe di un’esistenza desolata e abbandonata.