Veronica Tomassini / Elegia a Milano

Veronica Tomassini, L’inganno, La nave di Teseo, pp. 194, euro 20,00 stampa, euro 11,99 epub

Tram, silenzi, ombre che emergono da antichi viaggi lungo i meridiani mediterranei, tornano nell’universo biografico e poetico di Veronica Tomassini: L’inganno è ancora il poema delle strade metropolitane a cui l’autrice rivolge la propria scrittura a partire dall’esordio, nel 2010, con Sangue di cane. La distanza coperta dai suoi passi comprende l’ostilità del mondo e le urgenze volgari verso le quali gran parte dell’essere discorde comprende la ricerca di indizi di innocenza. Dell’amore, infine.

La protagonista del romanzo sfoglia, in solitudine, pagine di Goethe, della Bibbia, di Dostoevskij: lasciati alle spalle i marosi circondanti la Sicilia e superati monti e gallerie, quella che si apre davanti a lei è la Milano ancora carica di “modernità” (passaggi, cortili, ringhiere, latterie) nonostante la fatale elevazione dei nuovi quartieri. Abbandonati i feroci giorni d’aprile, la ragazza del Sud cerca l’amore nelle vie del centro, nelle chiese crepuscolari, cercando (e trovando) distanze dalla “sobrietà” borghese che tanto l’infastidisce. Sopportare la solitudine è l’atto principe dell’esperienza milanese, trascritta nelle pagine dell’Inganno in duplice natura di elegia e di diario: la prima consente allo sguardo d’illuminarsi (accade non raramente), il secondo traccia la discontinuità dei giorni con una sorta di austerità di primo Novecento.

Il romanzo, secondo Tomassini, obbedisce ai comandi del fuoco, invisibile ma perentorio dentro la sostanza della lingua. Il sacrificio dell’Agnello di Dio sta accanto alla felicità nell’attesa del tram: “congiungimenti gloriosi”, scrive, fra le rotaie e la nudità umana, mentre Milano sembra osservare affabilmente questi fenomeni. La bruma accoglie le pieghe pulsanti d’ogni giorno, stempera le voracità mentre l’autunno spinge a entrare nelle chiese, a riposare sulle panche. Il malanimo, le correità del Sud sono alle spalle, ma sono ricordi di ragazza, ora la donna se ne sente lontana senza una particolare esosità da parte della città che l’ospita.

La severa Erminia, affittacamere presso cui si rintana dopo i vagabondaggi, è per la protagonista misericordia radiante proprio grazie all’insistenza casalinga e ferma. La fissità di certe mattine milanesi ha una proporzione ben congiunta alla vita privata di questa viaggiatrice di superficie (più tram, poca metro) e di centri commerciali in cui irrompono perfino le chiese. L’amore che guarisce si cerca ovunque, nei dintorni della donna che ha lasciato la sua terra e dichiara d’essere scrittrice, e accoglie i consigli di non rientrare tardi la sera. Si chiede quali guerre, e quali nemici, ci siano dopo le sette di sera, mentre insiste a sostare sulle pensiline. Galleria e Duomo sono lì, nei suoi passi, e questo è tutto l’orizzonte. Rasente ai muri, per Tomassini il Natale investe di consapevole esistenza la sua protagonista, scrivendo cose di perennità. Freddo e luci sono altri comandi del fuoco per un romanzo che vuole fortissima la conoscenza. E l’incontro promesso col musicista è la svolta dentro il profetizzato freddo altezzoso di Milano: città di “improvvisi”, secondo i poeti (Sanesi, Cucchi, De Angelis) che l’hanno attraversata prima di Tomassini. Prima, durante e dopo, sono tutte storie di abbagli, inganni che hanno impugnato la vita di ragazze, giovanotti e scrittori di centro e periferie.

Non inganniamoci, la città strattona, ma l’orgogliosa volontà di una scrittrice mai tanto decisa, dentro l’allucinata serie di luci e ombre e passi furtivi di ragazzi per scale e nei portoni, va dritta al punto: il pellegrinaggio lungo la penisola porta a compimento il fine di perfezionare una poetica. La vita “succede” nel libro che stiamo leggendo, dura e cordiale, nel trasognato sviluppo della lingua che mai concede possibilità al ribasso. Tomassini non ha mai scardinato la sua visione, in favore di false comunità e economie fasulle. E la periferia milanese si addice ai pensieri verso le donne moraviane, realistiche pur cambiando città d’adozione, così come le donne veneziane di Giuseppe Berto, che un geniale e improvviso clic fa apparire nella figura androgina di Florinda Bolkan, certamente ammirata, almeno quanto l’immagine “paterna” di Tony Musante. Sono gli anni che tornano, nel girovagare, a riprendersi combattimenti e schermaglie. Nel pieno dell’elegia si affaccia l’epica dei decenni. È questo, forse, questo compenetrarsi di sentimento del tempo e realtà urbanistica, a conferire al romanzo la monolitica visione dei mille “dopoguerra”. La lingua di Tomassini contiene, al suo meglio, la gente kafkiana della Galleria e di un hinterland irrinunciabile per una città come Milano. Più vero, lei ne è certa, dello splendore della nuova architettura. E infine, la determinazione letta fin qui fa guadagnare un posto (un amore?) – tutto fuorché mondano – a chi ha scritto e a chi, allontanando la fine della vita, ha letto.