Nata da famiglia inglese in Francia, appena oltre la Manica, nei dintorni di Calais, e morta a Firenze, dove è sepolta, Violet Paget, meglio nota sotto lo pseudonimo maschile di Vernon Lee (1856-1935) è stata – oltre che acuta appassionata di arte e di musica italiana – teorica di un’estetica psicologistica centrata sul genius loci, che sviluppa quella di Walter Pater e Oscar Wilde. Personaggio eccentrico e controcorrente – transgender e crossdresser ante litteram – femminista e lesbica, militante pacifista durante la Prima Guerra mondiale: una straordinaria narratrice di racconti gotici.
Il futuro grande anglista Mario Praz, che la frequentò nei primi anni ’20, visitandola spesso nella sua residenza di Villa Il Palmerino, sotto Maiano, così la ricorda in uno dei suoi saggi raccolti in Il patto col serpente: “era allora una vivace vecchia signora sui sessantacinque anni. Ma “vecchia signora” non descrive affatto il personaggio. Il personaggio era un vestito e un volto. Colpa mia se notai per prima cosa il vestito, io che non ero mai ancora uscito dall’Italia e le donne ero abituato a vederle vestite in modo molto femminile? Era un tailleur grigio su cui spiccava la cravatta di picchè bianco trapunta da un cammeo; la giacca era quasi una giacca da uomo. Il volto non aveva nulla di soave: sembrava quasi chiedere a complemento la berretta d’Erasmo o la parrucca di Voltaire. Il personaggio rappresentava un’epoca: l’epoca dell’emancipazione della donna. […] il monte era il poggio di Camerata, la rivera era l’Affrico e il Palmerino, la villa di Vernon Lee, era per me Scozia e Inghilterra insieme. Scendevo a Firenze di solito sentendomi infinitamente sciocco e hopeless; ma l’amarezza passava e, nel ricordo, la burbera benefica signora s’aureolava d’incanto”.
Più avanti Praz ci rende conto acutamente anche delle contraddizioni “politiche” del personaggio: “Vernon Lee è un’esteta che si vergogna della propria leisure, dell’agio che può dedicare al culto delle cose belle, è un’artista che si vergogna di appartenere alla classe che Ruskin ha definito di ‘parassiti di parassiti’. […] nonostante che Vernon Lee fosse uno dei luminari della Union of Democratic Control e provasse quasi un amaro piacere a guastarsi con gli amici d’ogni nazionalità per voler prendere le parti di underdogs (come gli inglesi chiamano gli oppressi) sociali e politici, spesso immaginari, l’impressione che emana dai suoi scritti è irresistibilmente un’impressione di leisure, l’immagine che ci resta di lei è quella di una signora laide et gentille, […] arguta e caustica conversatrice in un ambiente nitido e fresco come il suo vestito […] tanta raffinatezza da suggerire la torre d’avorio e l’hortus conclusus”.
Si tratta forse dell’ultima rappresentante di quell’estetismo decadente, tipicamente inglese e diverso dal contemporaneo corrispettivo parigino, che aveva in Wilde l’esponente più emblematico, di cui questa estrosa inglese italianata rappresenta una sorta di controparte – brutta e gentile secondo Praz – femminile. Vernon Lee è stata tradotta in passato rapsodicamente (tralasciamo qui i suoi storici studi sul Settecento in Italia) da Guanda (Ombre italiane, 1988), Passigli (L’amante fantasma, 1996) e soprattutto da Sellerio (Genius loci, 2007 – una delle sue raccolte di saggi estetici e di viaggio risalente al 1899; il suo unico testo teatrale del 1903, Arianna a Mantova, 1996; e miscellanee dei suoi racconti gotici, L’avventura di Winthrop, 2003; Dionea e altre storie fantastiche, 2001; e Possessioni, 1982) Ora viene finalmente riproposta in modo più organico da Agenzia Alcatraz, presentando integralmente la sua raccolta narrativa più importante, Hauntings del 1890.
Come sottilmente puntualizza Max Baroni nell’introduzione al volume, l’hantise che sempre percorre le storie di Vernon Lee, non è una possessione, fenomeno brutalmente corporeo e carnale – oggettivo – come nei rituali vudù o negli esorcismi cattolici, bensì – in mancanza di un termine più preciso in italiano – un’ossessione: qualcosa di sottile, vago ed eminentemente psicologico, soggettivo. È solo questa perturbazione dell’anima, insieme al potere evocatorio del paesaggio italiano, in cui il passato e il presente sfumano e confondono i loro confini, in cui la storia emerge prepotente da ogni sasso e da ogni quadro, in cui regna il genius loci, che “come tutte le divinità degne di venerazione, ha la sostanza del nostro cuore e della nostra mente; è una realtà spirituale. E quanto all’incarnazione visibile, è il luogo stesso o il paese; e le fattezze e il linguaggio che gli sono propri…” (dall’introduzione a Genius loci) – a dominare e pervadere tutte le narrazioni della scrittrice.
I racconti, finalmente leggibili consequenzialmente in un’unica raccolta come fu per l’originale, percorrono scenari italiani vividi e realistici (o li travestono velatamente sotto nomi inventati, come il Ducato di Luna – un po’ Luni e un po’ Massa – della fiaba nera Il Principe Alberico e la Donna Serpente ; o la Urbania – una riconoscibilissima Urbino – di Amour dure), Firenze, Foligno, Perugia, Venezia (solo due storie sono ambientate altrove, una in Spagna e una in Inghilterra) ed epoche storiche diverse e da lei ben conosciute, il Rinascimento, il Settecento, fino alla sua contemporaneità degli ultimi anni dell’Ottocento. In Amour dure, l’ossessione riguarda una belle dame sans merci, Medea da Carpi, maliarda rinascimentale con i tratti un po’ di Lucrezia Borgia e un po’ di Caterina Sforza, che affattura un moderno studioso germano-polacco, Spiridion Trepka, con l’illusione – fatale – di un amore oltre le barriere del tempo; in Il Principe Alberico e la Donna Serpente, è un arazzo medievale a rimettere in moto un dimenticato intrigo, rinascita del mito di Melusina; in Un baule nuziale, di nuovo un’anticaglia vista in un museo reinscena una truce storia rinascimentale di vendetta, stupro e morte; in Una voce malefica, un musicista wagneriano che aborre la musica settecentesca, cerca tra i canali di Venezia il tema musicale per la sua opera, ma viene infestato dall’immagine e dalla voce perduta di un malefico castrato che ha ucciso col canto la moglie di un procuratore di San Marco: l’ossessione inaridirà per sempre la vena creativa del musicista moderno, rendendolo incapace di produrre nient’altro che imitativi e inattuali esercizi fioriti di bel canto; la prima stesura del racconto, del 1881, (pubblicato anche in italiano come L’avventura di Winthrop) più rozza ma anche più genuina, secondo Praz, era ambientata a Bologna invece che a Venezia e il protagonista non era norvegese ma inglese; in La bambola (forse la storia più morbosa) una bambola stile impero, attraverso una serie di ossessioni incrociate nel tempo, ha catturato l’anima di una giovane moglie morta di parto le cui fattezze riproduce fedelmente sfoggiandone i veri vestiti e capelli; La Vergine dei sette pugnali – il racconto più di maniera – è, secondo la condivisibile lettura di Praz, “un pot-pourri di motivi spagnoli, moreschi e barocchi nato dal mostruoso connubio tra le Mille e una notte con le architetture di Churriguera e le tele del Greco”; sia in La leggenda di madame Krasinska che in Oke di Okehurst o l’amante fantasma, infine, vengono delineate due complesse, contorte e affascinanti psicologie femminili: una svagata nobildonna polacca trapiantata a Firenze che ha osato scegliere come travestimento per una festa mascherata di impersonare una povera donna, ormai quasi una barbona, che vaga per i quartieri popolari di Firenze, dietro Santa Maria Novella, aspettando, impazzita, il treno che le riporti i suoi due unici e amatissimi figli massacrati nella battaglia di Solferino (l’apparizione alla festa rievoca le suggestioni de La maschera della morte rossa di Poe): e così, essendo vuota, viene per contrappasso riempita, e diventa gradualmente davvero quella donna, ne ripercorre e rivive angosce e vagabondaggi, fino a replicarne il suicidio (ma il fantasma la fermerà in tempo a quel punto e la sopravvissuta allora si chiuderà in convento); o la seducente e crudele milady che nel suo antico maniero nel Kent tradisce il marito con il fantasma dell’amante dell’antenata (ucciso secoli prima dal marito geloso, con la incomprensibile e contraddittoria collaborazione della stessa: che due amanti facciano fuori il marito è cosa comune, ma che moglie fedifraga e marito cornuto, insieme, assassinino l’amante, lo è assai meno…): la discendente moderna, che ha identico nome e aspetto dell’antenata assassina e si è convinta di esserne la reincarnazione, verrà invece colpita a morte dalla pistola dal marito, che tortura da anni con le sue continue indifferenze, assenze e reticenze, e che, ormai pazzo di gelosia, crede di sparare allo spettro in compagnia del quale immagina di vederla sempre: in entrambe le storie è fondamentale la presenza di un pittore, maschio, testimone e narratore incredulo delle vicende, del tutto inadeguato e incapace di ritrarre e perfino di comprendere gli enigmi e le antinomie della femminilità, troppo abissale per un semplice uomo.
A chiudere questa rassegna di racconti, tutti di grande suggestione, riportiamo ancora le parole di un altro saggio di Praz, forse definitive riguardo a Vernon Lee: “Nessuno più di me è nemico del periferico insignificante e di ciò che è mera eco e ripetizione, ma in certi minori s’approfondiscono temi che i maggiori spesso trascurano o sfiorano appena, di ben altro occupati. Io ho un debole per questi minori che cercan farfalle sotto l’arco di Tito”. Non possiamo non concordare.