Vermi, tarli e altri zoomorfemi

Libri pieni zeppi di vermi, tarli e anche di altri insetti e forme di vita, e dunque di «zoomorfemi» che si infiltrano e modificano a fondo la scrittura di Tommaso Lisa e Fabio Orecchini.

«Il segno è desiderio del segno» è il verso, splendido e lapidario, che si incontra nel bel mezzo di NEMAT (Industria & Letteratura, 2024) di Fabio Orecchini e che può essere utile viatico alla lettura congiunta di questo libro di poesia e del Grande libro dei tarli di Tommaso Lisa (ExOrma, 2024). Libri pieni zeppi di vermi, tarli e anche di altri insetti e forme di vita, e dunque di «zoomorfemi» – ancora Orecchini – che si infiltrano e modificano a fondo la scrittura di entrambi gli autori: l’operazione è inquieta e inquietante, legata a doppi vincoli esistenziali, talvolta tragici, e comunque ineludibili; come scrive Lisa – o i tarli, per lui – tornando al segno: «Nessun linguaggio è una casa, tuttavia non posso far altro che abitare un segno».

Partiamo allora dal suo Grande libro dei tarli e dal suo progetto, che non è tanto architettonico, di “casa”, ma di spazio abitabile, dove la “grandezza” del libro si risolve nella sua estensione e profondità, più che nel suo appiglio al canone. Scritture come quelle di Lisa, in effetti, accolgono prose, testi poetici e traduzioni insieme ad acqueforti e disegni (che partono dalle tracce animale degli Scolitidi, e cioè dei tarli, per sconfinare nella scrittura asemica), sfidando così ogni pacifica collocazione di genere; se questo è un dato ormai assodato, nella produzione editoriale contemporanea, un libro come quello di Lisa ha come orizzonte ultimo il «pangramma eteroletterale» disegnato dai tarli stessi nel legno (affondando nella cellulosa), con importanti risvolti, quindi, e non soltanto metaletterari.

Da subito, in effetti, Lisa dichiara che il libro è stato «scritto dai tarli e da me decifrato», parzialmente declinando la presa autoriale su quello che seguirà e assecondando invece quel «il discorso tessuto dall’evoluzione», per gli Scolitidi come per gli Ominidi, che «è fluido, in divenire, come un libro di metamorfosi». Metamorfica è dunque la natura del Grande libro dei tarli che, per questo motivo, risulta un campionario di forme più o meno embrionali, più o meno sviluppate, ma costantemente chiamate in causa: non solo un «prosimetro» – come vorrebbe, superficialmente, l’alternanza di prose e testi poetici – ma una «Ars poetica» che è anche un «trattato di arte naturale», una collezione di «ex voto» ma anche una piccola antologia della letteratura italiana, o forse ancora un’alchemica «eggregora», e così via. La «ricerca di molteplici strutture» nell’attività degli Scolitidi si riversa in una ricerca di molteplici forme artistico-letterarie, trascinata non da operazioni analogiche astratte, ma dal godimento entomologico di «catturare qualcosa, ed esserne catturato» – come nella relazione tra forma e informe, nell’arte – e, ancora di più, dalla condivisione della stessa materia. Come non identificare un possibile anello di congiunzione tra i due livelli nel bostrico dell’abete rosso (altro insetto curculionide, come gli Scolitidi), conosciuto come Ips typographus?

Il bostrico dell’abete rosso, in effetti, ritorna a più riprese nelle pagine di Lisa, anche perché è un problema aperto per la sopravvivenza delle foreste del Nord Italia, almeno da quando la tempesta Vaia, nel 2018, ha messo a disposizione dei bostrichi un’ingente quantità di legno a terra, consentendo la loro proliferazione. Torna così a fare capolino un lato inquietante, più che perturbante, di questa fascinazione, già incontrato nell’ipotesi di una “casa”, per la scrittura, intimamente tarlata; vi si aggiunge una coscienza delle catastrofi antropoceniche, che è però sempre controbilanciata dalla fiducia in una biodiversità attiva ed efficiente – diversa da quelle che Lisa definisce «posticce», perché contrabbandate da politiche più o meno green – come quella già oggi garantita per un terzo, sul pianeta, proprio dagli insetti saprofagi.

L’Ips typographus si ritrova inoltre a fare da anello di congiunzione anche con i testi poetici che costellano il Grande libro dei tarli: provengono dalle precedenti pubblicazioni di Lisa sulla prestigiosa rivista “il verri” e si propongono come spunti iniziali di una ricerca che viene prospettata anche nel corso del libro, ora come un Cantico dei tarli lautréamontiano, ora come un’opera sul modello dei Cantos poundiani (travisando creativamente l’interesse per gli ideogrammi cinesi di quest’ultimo nel proprio interesse per le incisioni e disegni dei tarli). Sviluppi ancora a venire, perlopiù, ma che permettono a Lisa, in veste questa volta di critico e autore di poesia, di evocare una piccola antologia “tarlata” della poesia italiana che arriva fino ai nostri giorni, e agli esempi contemporaneidi Gabriele Frasca (suo l’«unico esempio della poesia d’insetto scrivente in prima persona», dai Versi rispersi del 2016), Andrea de Alberti (già autore di una Cospirazione dei tarli, per Interlinea, nel 2019), Paolo Maccari, Francesca Matteoni e, appunto, Fabio Orecchini. Torneremo presto sul legame che unisce i due libri, al di là della citazione esplicita di un testo nell’altro; per il momento è opportuno sottolineare un altro dei tanti esempi di “letteratura dei tarli” censiti da Lisa, ovvero l’intervista del 1983 a Franco Fortini intitolata “Cerco di trapanare Kafka come fossi un tarlo o una tarma”, dove il lavorio dei tarli nel legno è accostato a quello della traduzione – forse il grande perno, anche sottotraccia, del libro di Lisa – perché chi si impegna in «questa minima apocalisse, arriva anche ad annientare sé stesso, per la crudeltà necessaria che appartiene al carattere d’un simile interprete».

Dalla traduzione, compresa quella “interspecie”, vengono infatti alcuni interrogativi fondamentali per il libro. “Chi è l’autore?”, ad esempio, nel continuo rimpallo estetico, più che etico, che Lisa istituisce con gli autori-tarli – rimpallo che comunque, come già si accennava, non impedisce sortite autobiografiche, con il racconto di una fascinazione entomologica lunga una vita, e anzi ne orienta il tentativo di comprensione non solo verso il passato e il presente, ma anche verso il futuro (a partire dalla quella scoperta inaspettata che è sempre, nell’esperienza quotidiana più comune, quella dell’esistenza dei tarli).

Come in ogni traduzione, ci si chiede anche: “chi è l’Altro da sé?”, tenendo presente, come annota sempre Lisa, che tarlo è l’anagramma di altro. Si può così formare un «uroboro» dal potere «demiurgico», come scrive Lisa nell’apice metaletterario e insieme filosofico del libro, se si pensa a chi scrive, e traduce, come tarlo della propria biblioteca, che lì si chiude e muore, terminando l’opera, che rimarrà visibile come tarlatura. Uroboro che con understatement gozzaniano (ricordando così la passione entomologica che unisce Lisa al grande poeta di inizio Novecento) si ritrova anche fuori da quell’enciclopedismo della cultura un tempo definita “alta” che costituisce il nerbo del Grande libro dei tarli, ovvero nella chiusa di Paolo il tarlo, canzone dei Bachi da Pietra del 2013, quando Giovanni Succi scandisce: «Olratlioloap». (Forse un altro zoomorfema?)

L’opera di Lisa, come si diceva, chiama in causa esplicitamente quella di Orecchini, in omaggio anche alle «reti di relazioni tra i coleotteri eusociali e i vermi nematodi» di cui si legge in un suo passo. Lisa cita la performance NEMAT Alcesti dell’artista e poeta romano, che costituisce uno dei tanto passaggi del lavoro di Orecchini negli ultimi anni, comprendente anche Figura (Oèdipus, 2019) e Malbianco (Edizioni Volatili, 2021), e che oggi porta a NEMAT, per Industria & Letteratura.

Si tratta di un libro dal formato singolare, grande e squadrato, di un quaderno, adatto, perciò a contenere le tracce della versatile produzione dell’autore nonché la veste grafica “esplosa”, e sviluppata perlopiù in orizzontale, di molti suoi testi. Nelle due sezioni principali, “Ferecide” e “Ungrounding Euphoria”, sono infatti accolte scritture molto diverse, unite da una poetica precisa, che affonda e rielabora tradizioni poetiche più o meno sotterranee – si potrebbe dire ipogee, in analogia sia con Alcesti che con i nematodi – degli ultimi cinquant’anni. Esemplare, a questo proposito, la sottosezione “Linguamadre”, nella prima parte, dove Orecchini effettua campionature da un poeta ormai pressoché dimenticato come Guido Savio e dai suoi Quadri (1977) – campionature poi accostate alla riscrittura stenografica dei propri testi effettuata dalla madre dell’autore romano.

Sono molti altri gli autori, oggi più o meno noti, come Patrizia Vicinelli, Franco Ferrara – recentemente ripubblicati nella collana “Talee” di Argolibri, curata da Orecchini insieme ad Andrea Franzoni – o Giuliano Mesa che ritornano, in varie forme, nelle pagine di Nemat. Ci sono tuttavia anche riferimenti e citazioni che esulano dalla tradizione poetica in lingua italiana (bibliografia nella quale spesso si rinchiude come in un fortino la poesia italiana contemporanea, confermando i dubbi di chi la definisce “autoreferenziale”): pregevoli, allora, i riferimenti a L’autrice dei semi di acacia (1974) di Ursula K. Le Guin, Cyclonopedia (2008) di Reza Negarestani o alla Grande cecità (2017) di Amitav Ghosh, e non solo nel senso di un fin troppo evidente sforzo di aggiornamento del quadro teorico entro cui si inserisce questa poesia, ma anche nel delineare meglio l’«Ade antropocenico» – la definizione è di Lisa – nel quale si muove NEMAT. È l’Ade, ancora una volta, di Alcesti, del mito e della cultura classica greca, ma è anche l’Ade personale delle catastrofi, dei traumi e dei lutti che costellano il libro – non ultimo una frana nei dintorni dell’abitazione dell’autore, nel suo rivolgersi e spalancarsi infernale di terra.

Tornando, però, al codice stenografico summenzionato, anch’esso include segni «vermiformi» e «mitogrammi», a instaurare un gioco di rimandi con il resto del libro – anch’esso riassumibile, forse, e in ultima istanza, com quel «pangramma eteroletterale» descritto da Lisa. Qui, però, sono i nematodi, più che i curculionidi, a istituire tale possibilità, nel video che si può aprire scannerizzando il QR code presente nel libro. Vermi, nella fattispecie, che si muovono in bianco e nero, producendo anche quelle “terioscritture”, o “scritture animali”, già indagate, cinquant’anni fa da Le Guin e poi praticate soprattutto nell’ambito della poesia e delle scritture radicali angloamericane. Radicale è dunque anche l’innovazione proposta dal libro di Orecchini in Italia, con uno scatto in avanti che tuttavia non si esime dal ripercorrere i libri precedenti dell’autore, con i testi di Dismissione (Polìmata, 2010) e Per Os (Sigismundus, 2016) ripresi nelle sottosezioni finali.

Uno sforzo autoantologico – davanti all’estinzione dei libri di poesia, oltre che delle specie animali – che trova nei propri «zoomorfemi», così come il Grande libro dei tarli di Lisa, un’istanza di mediazione ineludibile e vitale tra la dimensione autobiografica e quella della resa “oggettivante” su carta.

Oppure nel legno, oppure nel terriccio.