Stig Dagerman, Autunno tedesco, tr. Massimo Ciaravolo, Iperborea, pp. 160, € 16,00 stampa, € 8,99 eBook
recensisce ANNA RUCHAT
“L’atto conclusivo della distruzione – quale fu vissuto dalla quasi totalità dei tedeschi” scrive Sebald nella sua Storia naturale della distruzione “restò così, nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia […] La reazione quasi naturale, dettata dalla consapevolezza del proprio disonore […] fu il tacere.” In quel suo libro fondamentale, Sebald parla dei pochi scrittori tedeschi e di alcuni stranieri che nei primi anni del dopoguerra osarono infrangere il tabù e raccontare la Germania distrutta dalle bombe: la fame e la miseria dei tedeschi che vivevano ammassati nei bunker dismessi, o sui treni fermi nei depositi delle stazioni, i bambini che scorrazzavano soli o per bande tra le macerie cercando cibo o carbone.
Tra i narratori stranieri più coraggiosi e onesti c’è, secondo Sebald, l’inviato del giornale svedese “Expressen”, lo scrittore anarchico Stig Dagerman. Il suo reportage Autunno tedesco, appena ripubblicato da Iperborea nella bella traduzione di Massimo Ciaravolo, non è infatti soltanto un testo imprescindibile per chi voglia capire cosa c’è all’origine della Germania occidentale, è incontestabilmente una pagina di grande letteratura. Nell’autunno del 1946 Dagerman parte dalla Svezia neutrale, per andare a raccontare le città tedesche, da Amburgo a Düsseldorf, da Colonia a Monaco, Norimberga e Darmstadt. Senza il filtro di ideologie o certezze, affronta la fame e la disperazione nei bunker pieni d’acqua di Amburgo. Incontra esseri umani che non parlano ma le cui facce “somigliano tanto ai pesci quando salgono verso la luce per prendere ossigeno”.
Ma più surreali delle cantine putride sono i tribunali dove si svolgono i cosiddetti processi di denazificazione: “Ci si sente trasportati nel fantastico mondo di Kafka” scrive Dagerman, “con le finestre parzialmente murate, le pareti rigorosamente spoglie, le lampadine fredde, il misero mobilio danneggiato dalle bombe e il tetto semidistrutto”. E in molti casi il processo stesso è una farsa perché esiste “una provvidenza, spesso di nazionalità americana, che prepara uscite di sicurezza dal triste palcoscenico dei tribunali per la denazificazione”. Dagerman è solidale con il dolore dei singoli tedeschi e rifiuta il concetto di colpa collettiva. Quella “sofferenza esige una partecipazione, una con-passione […] una partecipazione sempre sul punto di essere spenta dall’abitudine, dalla ripetizione e che pure è il solo sentimento realmente vitale”, scrive Fulvio Ferrari nella postfazione al libro.
Insomma Dagerman cerca le verità nascoste dietro gli stereotipi e si prende tutti i rischi della scrittura. Per questo ancora oggi la lettura di questo libro risulta per noi folgorante.