Leggere e scrivere una recensione a questo libro non è una passeggiata. Da dove prenderlo, come confrontarsi con quel che dice e come lo dice. Vien voglia di scartarlo e metterlo via. Ma poi lo riprendo in mano e mi risiedo sull’orlo del buco e di nuovo ci guardo dentro, rileggo quest’opera coraggiosa, creativa e molto molto intima.
I fatti nudi e crudi sono semplici, reiterati e universali. Un padre abusa di una figlia a cinque anni e questa catastrofe è il punto su cui si determina tutta la vita della figlia che in questo caso è la famosa scrittrice e attivista autrice de I monologhi della vagina.
Quello che invece non è per niente scontato è che per fare i conti (definitivi?) col padre la Ensler scelga di immaginare e donare le proprie parole di scrittrice al padre, morto da più di trent’anni, affinché possa scriverle la lettera di scuse che non le ha mai fatto dedicando il libro a “ogni donna che ancora aspetta delle scuse”. Così ancora una volta la “letteratura” non manca al suo compito di essere universale, di non dare risposte univoche, di mostrare la complessità delle relazioni e dell’intreccio violento che in varie forme le innervano.
E in questo libro precipitiamo nel cuore buio della violenza, quello più spaventoso e sanzionato dalle leggi umane, vale a dire l’incesto fra padre e figlia.
Eppure la Ensler non priva la voce del padre di neanche una particella del suo “sapere” e finezza letteraria, a tratti la figura del padre non è odiosa, a tratti è sincera e non manipolativa; come ogni portatore di violenza anche il padre è un infelicissimo individuo, un grumo di dolore, un ex bambino terribilmente ferito che scatena la propria rabbia distruttrice contro la figliolina, ma anche contro tutti gli altri, la moglie che costringe a “eliminare” la figlia e a preferirgli il marito, l’intera famiglia che manipola e mette contro la bambina causa di ogni male. Il padre mette a nudo anche la propria vulnerabilità, cade in un vortice amoroso del quale non sospettava l’esistenza e del quale è stato privato da infante; un gorgo in cui precipita completamente impreparato, senza strumenti di intelligenza emotiva per riconoscere la propria responsabilità e – qui sta il delitto – senza voler mettersi in questione perché è proprio su questa totale anaffettività e incapacità di riconoscere ed empatizzare con l’altro che in definitiva fonda tutto il proprio potere e privilegio senza limiti ai quali non vuole assolutamente rinunciare, perché: sei hai “una vita di privilegi e diritti quanta autonomia di coscienza ti concede? Se nasci in un particolare paradigma che ti è utile, cosa potrebbe costringerti a guardare fuori?”
Quando l’altro, la bambina spaventata e che si sente tradita, fa l’unica cosa che è in grado di fare e cioè esiliarsi dal proprio corpo e di fatto “morire” osando rifiutare il proprio amore al padre costui si sente tradito, umiliato e messo in questione e quindi la propria violenza esplode in modo terribile. La bambina, vale a dire il territorio senza limiti del proprio desiderio (ma meglio dire delle proprie pulsioni incontrollabili e ripetitive) diventa il nemico da annientare anche uccidendone “il desiderio fin dalla più tenera età” e derubandola della normalità. “Eri il paese che reclamavo. La conquista territoriale. Le spoglie di guerra” dice il padre che aggiunge: “non importava che stessi depredando la terra e tutto ciò che vi cresceva purché la possedessi, purché fosse mia”.
Inizia così una battaglia senza esclusione di colpi (dalle botte, alle umiliazioni, al rendere la figlia il nemico da abbattere anche da parte della famiglia, all’isolamento, fino all’esclusione dal testamento).
Da parte sua la bambina – e poi la ragazzina e la donna – si oppone alternando ribellione e autopunizione in uno smarrimento di sé e della propria affettività che è insopportabile per il lettore che – a volte traviato o manipolato dal racconto del padre – capisce finalmente ed esattamente dove si colloca il limite invalicabile. Qui cade ogni motivazione: “Ero un mostro arido, o un uomo con un cuore spezzato e vendicativo? C’è differenza? Ha importanza? Di certo non per quanto riguarda il dolore che la mia crudeltà ti ha inflitto”.
“Per vivere bisogna lasciar andare i morti” e “riportare a casa il proprio corpo” troppo a lungo esiliato. D’altra parte: “È solo tramite i vivi, tramite le loro fantasie ed empatie più profonde, che i morti possono conoscere se stessi ed essere liberati” chiedendo scusa, rendendosi umili, ammettendo le offese e offrendo una resa senza aspettarsi il perdono.
“Vecchio, vattene”, conclude Eve.