Ascoltare Vasco Rossi leggendo Deleuze e tenendo ben presente la storia politica e culturale dell’Italia, dagli anni Settanta in poi: un’impresa un po’ folle, sulla carta, che potrebbe ricordare per analogia I Simpson e la filosofia. Come capire il mondo grazie a Homer, Nietzsche e soci, pubblicato in originale nel 2001 e capostipite di una lunga sequela di pubblicazioni che, negli ultimi anni, hanno insistito sull’intreccio di filosofia e cultura pop. In realtà, è piuttosto diverso l’approccio delle due pubblicazioni che, negli ultimi mesi, hanno posto la storia e la musica di Vasco Rossi in relazione alla filosofia, alla teoria culturale e a uno sguardo materialista alla storia degli ultimi decenni, ovvero Odio i lunedì. Con Vasco Rossi negli anni Ottanta di Diego Giachetti (Machinalibro, 2024) e L’esperienza del rock. Vasco Rossi (Doppiozero, 2023) di Enrico Minardi.
Il primo libro, che è anche il titolo di esordio della serie Machinalibro, dall’omonima rivista di DeriveApprodi, è firmato da Diego Giachetti, e cioè da un autore che, come riporta l’agile bandella, è «due volte recidivo sull’argomento Vasco Rossi», avendo già firmato due volumi sul Blasco (Siamo solo noi, Theoria, 1999; Ognuno col suo viaggio, con Marco Peroni, Ricordi, 2005), rispetto ai quali Odio i lunedì si presenta dunque, a quasi vent’anni dall’ultima pubblicazione, come ampio prosieguo e insieme riordino del lavoro. Minardi, invece, arriva a parlare di Vasco Rossi, e anche di molto altro, da una traiettoria che comprende ricerche accademiche di ampio respiro, come ad esempio l’antologia di saggi The Last Fourty Years of Italian Popular Culture. “Andare al popolo” (Cambridge Scholars Publishing, 2020), curata insieme a Paolo Desogus. Le due prospettive, in ogni caso, sembrano essere almeno parzialmente convergenti sul piano dei riferimenti teorici – come indicato in precedenza attraverso il sommario riferimento “leggendo Deleuze” – orientando così la lettura materialista del “fenomeno Vasco” verso orizzonti che talvolta rivelano una comune matrice, o almeno una comune aderenza, post-operaista.
Giachetti, del resto, intitola il proprio libro Odio i lunedì, riprendendo le parole di Lunedì (da C’è chi dice no del 1987) e alludendo, allo stesso tempo, a quel rifiuto del lavoro che – come esperienza, più che ideologia – permea anche altri testi di Vasco, fino a rintracciare la cogenza di questa impostazione anche in alcune interviste molto recenti, giustapposte anche a quel fenomeno delle “grandi dimissioni” che è stato da poco raccontato, in Italia, da Francesca Coin. Nel 2023, ad esempio, rispondendo alle domande di Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera, Vasco Rossi replica così: «Sembravo scapigliato e fuori di testa, ma ho sempre avuto le idee chiare. Fino a 20 anni pensavo si potesse cambiare il sistema, dopo ho costruito un sistema mio. Mi sono inventato un lavoro come disc jockey con la radio private e poi è partita questa avventura delle canzoni. Ho imparato dai cantautori, ma sono stato il primo, assieme a Nannini e Bennato, a usare il linguaggio del rock in italiano». A questo proposito, Giachetti evoca i movimenti di sottrazione al lavoro e, insieme, di «sottrazione alla disciplina e all’autorità»: «dopo aver constatato l’impossibilità di cambiare il sistema», scrive, «si prova a ridefinire spazi di vita e intrecciare reti d’appoggio relazionali, proiettandosi all’esterno del sistema» (p. 112).
Forse è una versione nobile di ciò che si potrebbe interpretare anche altrimenti, ovvero leggendo nel fatto di “costruirsi un sistema proprio” una scelta individuale e individualista, portatrice di dinamiche valoriali specifiche e, soprattutto, non necessariamente orientata in un senso teorico-politico forte. D’altro canto, è vera anche l’obiezione speculare, obiezione che forse costituisce uno dei meriti più sicuri del libro: Vasco e il suo “popolo” – dimensione autoproclamata della fandom che potrebbe avere anche interessanti risvolti nell’analisi, ma che forse viene un po’ trascurata, in entrambi i libri – non sono soltanto l’espressione culturale di una certa “italianità” o di alcune specifiche componenti sociali; intrattengono, invece, e soprattutto nel primo periodo, dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta, un rapporto complesso con la storia politica del nostro paese. Stupendo (1993) ne è chiara epitome, con alcuni versi – «ma non ricordo se chi c’era / aveva queste facce qui / non mi dire che è proprio così / non mi dire che son quelli lì / Stupendo / Mi viene il vomito / è più forte di me» – dichiaratamente incentrati sul cambio di casacca di molti ex movimentisti in procinto di ricominciare una carriera nelle file del berlusconismo. (Anche questi, però, sono versi che, come spesso accade con le canzoni di Vasco, mantengono la porta aperta per interpretazioni meno nette, potendo ad esempio essere considerate come precorritrici, nel loro qualunquismo, della più recente “antipolitica”).
Ancora più intricato è il rapporto di Vasco con il femminismo, al quale Giachetti dedica un intero capitolo: il cantante di Colpa d’Alfredo (1980) – canzone della quale Minardi, nel suo libro, rileva giustamente il riferimento jannacciano di fondo – o, appunto al volgere degli anni Novanta, di Rewind (1998), è stato anche il cantante di Anima fragile (1980) e di Brava (1981), dove emerge una mascolinità tradita e messa alla prova – «Allora ero puro / allora forse avrei potuto anche amarti / davvero» – che, pur dando adito alle più svariate espressioni, confessa la propria fragilità. Rientra, cioè, in una costruzione del maschile più sfaccettata, che Giachetti ha buon gioco nel rinviare ad almeno un caposaldo dell’analisi, in questo ambito, come La mascolinità contemporanea (2004) di Sandro Bellassai.
È poi uno dei paragrafi finali di Giachetti a sintetizzare in modo molto limpido questo groviglio di tensioni e contraddizioni, incamerate ed elaborate in vario modo dal “popolo”, o comunque pubblico, di Vasco: «Le sue canzoni anticipano la filosofia, riflettono una tensione verso la saggezza sulla propria pelle. Così l’individuo acquisisce una sua singolarità ingenua: ritiene di poter dare uno scopo tutto suo alla propria vita, poiché la vita, non avendo bisogno di giustificarsi, è un valore in sé, vale perché c’è, la si consuma vivendo accompagnati dai sentimenti d’amore e affetto, dai tradimenti e dalle gelosie, nell’eterno conflitto, mai risolto, tra passione, ragione, esperienza. Donne e uomini sono consegnati a sé stessi. La fine del divenire storico “scarcera” spiriti liberi. è un’allegria che anticipa una rischiosa deriva, poiché non è facile vivere senza rassicuranti prospettive, essere parte di una storia senza inizio né fine» (p. 147).
È su questo punto – più che sulla laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione allo Iulm di Milano (2005), come effettivamente ricordato da Giachetti nelle ultimissime pagine del volume – che si può chiudere veramente il libro e accostarne la lettura a quello di Enrico Minardi. Qui la “storia senza inizio né fine” si sovrappone a quello della “cultura popular” – traduzione già in sé importante dell’inglese popular culture, perché evita sia la confusione con la “cultura popolare” sia con la “cultura pop”, com’è forse inevitabile per un libro rock, e anche “degenere”, secondo la definizione di Alessandro Martina su Doppiozero,– inserita, come già si accennava, in una discussione teorica di alto profilo e al tempo stesso in una narrazione autobiografica nella quale l’autore si impegna esplicitamente nel tentativo di essere «storiografo della mia giovinezza» (p. 15).
È proprio su questa ibridazione testuale che si concentra Alessandro Martina, esprimendo infine il proprio apprezzamento critico per «il tentativo (riuscito) di dare un fondamento metafisico alla musica rock, utilizzando lo specifico dell’analisi musicale esclusivamente per elaborare una teoria estetica sulla fruizione musicale. Tale teoria poggia sull’idea che il suono (in quanto corpo sociale) sia capace di esprimere l’identità del soggetto singolo non attraverso la sua inclusione in un tutto-sociale che sia la somma di tutti gli altri io. Non siamo di fronte alla semplice appartenenza di un io ad un gruppo. La relazione che si instaura è quella di un distacco che comprende; nell’eco musicale e psicologico risuona il senso paradossale di essere al mondo sia con gli altri che da soli, di far parte di un gruppo senza avere una precisa rappresentazione in esso». E ancora, «Questo è in un certo senso il gioco del desiderio […]»: Martina coglie subito l’ampiezza della costellazione teorica frequentata da Minardi, che comprende autori che, di fanno, hanno molto riflettuto sul desiderio come Spinoza, Deleuze e, in tempi più recenti, Maurizio Lazzarato; si tratta di un background teorico-filosofico utile per uno dei pilastri del posizionamento di Minardi, ovvero una re-interpretazione della cultura popular a tutto campo, che si discosti dai percorsi accademici più battuti e dal loro culturalismo pervasivo, ricordando come popular possa essere inteso – Minardi lo anticipa sin dalle prime pagine del libro – come uno strumento di liberazione attraverso l’incremento della coscienza critica, e non soltanto come mera evasione escapista.
In questo senso, il libro è anche un’incursione nei presi della soglia, o anche linea d’ombra, tra giovinezza ed età adulta, quando si verifica una «lontananza folle dal proprio desiderio», dovuta alla «pressione della riuscita sociale, in combutta con quella della classe» (p. 110). Ritornano qui gli echi di un altro protagonista emiliano degli anni Settanta e Ottanta come Pier Vittorio Tondelli, con il suo elogio dell’autonomia della vita giovane, ma, rispetto alle pagine tondelliane più libertine, vi è almeno una tensione eguale e contraria che è quella del rifiuto della permanenza tra le forze dionisiache della giovinezza e, quindi, del “deragliamento totale”.
Del resto, la musica di Vasco Rossi, e questo Minardi lo identifica molto precisamente, si è anch’essa posta molto spesso come zona di compromesso, ad esempio rispetto alla musica hard rock e heavy metal anglofona sua coeva, della quale Minardi è stato appassionato cultore: molto indovinati, anche se un po’ eterodossi, sulla carta, sembrano i confronti tra i concerti di Vasco Rossi e il tour italiano dei Saxon, nei primi anni Ottanta (p. 153), oppure anche l’identificazione di una negoziazione musicale con l’hard rock internazionale che è nel complesso più convincente, per Minardi, nel primo Vasco Rossi rispetto ai Vanadium di Pino Scotto (p. 132) – per non parlare, infine, della preferenza “di genere”, pun intended, dell’autore per la musica di Vasco Rossi rispetto a quella, parimenti di compromesso con le influenze musicali internazionali, come quella di Gianna Nannini (p. 136).
Si tratta di un compromesso che, più in generale, riflette la situazione culturale e politica italiana degli anni Ottanta, fornendone una versione che non si accomoda esclusivamente entro i limiti della definizione, per certi versi limitante e depoliticizzante, in sé, di “riflusso”. Oltre a richiamare il piano della micropolitica foucaultiana (p. 54) – che andrà a rivestire una rilevanza sempre maggiore nei decenni successivi, fino a oggi – Minardi evoca lo studio di Alberto Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali (1982), per sottolineare come la questione dell’identità – declinata, naturalmente, in una chiave non identitarista – fosse già centrale nel movimentismo della fine degli anni Ottanta, portando poi a quello scenario composta da identità fluide e allo stesso tempo conflittuali che arriva fino ai nostri giorni. L’oscillazione tra conflitto e compromesso risulta, in altre parole, di importanza fondamentale per affrontare questioni dal radicamento culturale e politico ancora più profondo rispetto ai movimenti di estetizzazione e superficializzazione convenzionalmente connessi all’etichetta del “riflusso”.
D’altra parte, gli stessi anni Ottanta si aprono, in Italia, con un album come Sono solo canzonette (1980) di Edoardo Bennato – è sempre Minardi a rilevarlo (p. 47) – e cioè con una messa alla berlina del paradigma cantautorale degli anni Sessanta e Settanta. Ciò spalanca la strada alle novità delle elaborazioni musicali successive, tra le quali Vasco Rossi – che aveva già abbandonato lo stile classicamente cantautorale di confronto con il pubblico nel 1981, rileva sempre Minardi – avrà un ruolo preminente. Per dirne una, il sesto album di Vasco, Bollicine (1983), sarà inserito al primo posto dei “100 migliori album della musica italiana” censiti da Rolling Stone Italia nel 2012; tuttavia, e in modo un po’ prevedibile e un po’ sorprendente, Bollicine e la sua canzone di punta, Vita spericolata, costituiscono anche il punto in cui Minardi esperisce per la prima volta il proprio disamore per la musica di Vasco – sottraendosi, per questo, a una disamina degli ultimi quarant’anni di produzione musicale di Vasco tanto approfondita come quella dedicata ai suoi esordi.
È una scelta che costituisce una differenza assai rilevante rispetto all’analisi di Giachetti, che in Odio i lunedì, così come nelle pubblicazioni precedenti, accompagna passo passo la produzione di Vasco Rossi – scegliendo, anzi, di aprire il volume con una propria intervista al cantante del 2023. Ed è così che le possibili convergenze teoriche dei due percorsi interpretativi si arrestano, infine, di fronte a un tipo di giudizio e scelta che è tipicamente da fan, confermando, indirettamente, come la dimensione della fandom, nello studio della cultura popular, abbia un rilievo specifico, talvolta capace di ridefinire anche le più consistenti e preziose analisi (e quelle di Giachetti e di Minardi lo sono per davvero). In fondo, come cantava Vasco proprio nel 1983, riferendosi in modo esplicito alle proprie canzoni, «le canzoni / son come i fiori / nascon da sole, sono come i sogni / e a noi non resta che scriverle in fretta / perché poi svaniscono / e non si ricordano più»: a noi non resta che canticchiarle, con il sospetto sempre più fondato, dopo la lettura di entrambi questi libri, che siano solo canzonette e che al tempo stesso siano qualcosa di più.