In Dilaga ovunque, Vanni Santoni ripercorre nella forma del romanzo-saggio, la storia dei graffiti e della street art. Con l’utilizzo di una narrazione in seconda persona, viviamo attraverso lo sguardo e sulla pelle di Cristiana Michelangelo, protagonista della storia, le frustrazioni derivanti dagli obiettivi artistici mancati, l’avvilimento di fronte al rifiuto da parte di un mondo di cui si agogna l’approvazione e, infine, la riscoperta di un’energia espressiva incondizionata che credevamo esaurita. Abbiamo avuto l’occasione di dialogare con l’autore sul suo nuovo libro
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In Dilaga ovunque si ripercorre la storia dei graffiti e della street art attraverso gli occhi di Cristiana Michelangelo, un’artista in costante oscillazione tra bisogno di realizzarsi e disillusione. Insieme a Cristiana il lettore incontra personaggi autentici che risvegliano in lei la pulsione verso la pratica attiva del graffitismo, ma anche il lato più squallido del mercato dell’arte contemporanea, da parte del quale, almeno in passato, ha ricercato l’approvazione. In questa tensione tra necessità di esprimersi e ricerca di uno spazio in cui poterlo fare, quanto conta, secondo te, il riconoscimento altrui per stabilire il valore di un artista?
Dilaga ovunque è un romanzo che può essere letto attraverso varie chiavi. Una è quella che citi, il rapporto, spesso conflittuale, ma che esiste da sempre, tra street art e arte “ufficiale”. Un’altra è il nostro rapporto con lo spazio pubblico. Un’altra ancora la storia del writing e come si lega a certi istinti sempre presenti nella cultura umana. Un’altra ancora è la storia personale di un’artista presa in un momento di crisi personale… Non definirei necessariamente “squallido” l’approccio che tiene il mercato dell’arte: di certo è un approccio in cui la monetizzazione è centrale, quello sì. Ma è anche un approccio capace di creare valore come pochi altri (a volte creando anche “bolle”, certo). Va da sé che tra writing e gallerie c’è sempre stato un rapporto difficile, ma vale anche la pena dire che fin da subito le gallerie hanno cercato di cooptare i graffiti, e che ci sono state anche figure in buonissima fede, come Francesca Alinovi, che hanno capito come il writing fosse arte, e pure importante, e hanno lavorato per dargli ri conoscimento. Tutto questo, attraverso il viaggio di Cristiana Michelangelo nel proprio passato da writer e nel proprio presente di artista “alta” che fa fatica a sfondare, viene raccontato in Dilaga ovunque.
Nel libro si evidenzia un paradosso: i graffiti urbani, nati come forma di espressione spontanea e illegale, sono oggi riconosciuti quali opere d’arte, a patto di essere collocati in precisi contesti istituzionali. Tutelarli significa negarne la componente dinamica, criminalizzarli rappresenta invece la strada più semplice per ignorare che si tratta di una manifestazione di fenomeni molto complessi e stratificati. Qual è il tuo pensiero attorno all’annosa (e forse oziosa) questione circa a “cosa è arte” e “cosa non è arte”?
Ciò che rende così interessante la storia dei graffiti – un interesse che mi ha infatti portato a farci un romanzo sopra – sono questi continui paradossi. Il graffito ha senso se è in strada o su un treno, ma la galleria vorrebbe cooptarlo; oggi viene definito “degrado” ma domani diventa “decoro” quando riqualifica un quartiere difficile; il graffitaro viene criminalizzato e perseguitato, ma quando poi diventa famoso viene invitato a esporre con tutti gli onori nei migliori spazi istituzionali… Recentemente il 1° arrondissement di Parigi, il quartiere più centrale e prestigioso della città, dove ha sede lo stesso Hôtel de Ville, il comune di tutta Parigi oltre che dell’arrondissement, ha organizzato una enorme mostra dei graffiti a Parigi… Buona parte degli artisti lì esposti hanno un passato di denunce, multe e incarcerazioni proprio da parte dello stesso comune che oggi li espone e celebra come patrimonio cittadino!
Circa cosa sia o meno arte, come hai già anticipato è una questione oziosa. Da Duchamp in poi, conta l’intenzione dell’artista: dunque se l’artista ritiene che sia arte, lo è. Il che non significa che sia per forza buona arte, certo.
Nel tuo libro, attraverso la parabola dei graffiti, si ragiona attorno all’attuale svuotamento dei centri storici delle grandi città in favore di scelte legate al profitto, alla riduzione e cancellazione di spazi comuni in cui le interazioni sociali possano originare visioni alternative della realtà. A tuo parere esistono ancora sacche di resistenza o sono possibili nuovi scenari rispetto al fenomeno di spersonalizzazione delle città?
La progressiva limitazione dello spazio pubblico, anche di quello usato da millenni – come i sagrati – è parte di un piano generale di monetizzazione dello spazio urbano. Meno pubblico, più privato. Qualcuno si sarà accorto, immagino, che in Santa Maria Novella (la principale stazione di Firenze) un bel giorno sono sorti degli orribili e inutili gate, che limitano la fruizione di una stazione nata architettonicamente perfetta; subito dopo, sono scomparse tutte le panchine. Addirittura dalla sala d’attesa! È chiaro che si tratta di un disegno volto a spingere a forza il pubblico nei negozi. Si tratta di un modello di città che potrà esser pure profittevole sul breve, ma è perverso, dannoso, e in ultimo fallimentare sul lungo periodo. Una resistenza ci sarà sempre, perché non si può andare avanti così, pena la vivibilità stessa dello spazio urbano.
I tuoi romanzi si reggono su un solido lavoro di ricerca e, per alcuni di essi – penso soprattutto a Muro di casse, che ruota attorno al mondo dei rave, e a La stanza profonda, focalizzato invece sui giochi di ruolo – hai scelto una forma ibrida al confine con quella del saggio. Per certi versi Dilaga ovunque, su graffiti e street art, costituisce una sorta di trittico con i due precedenti. Quali sono i vantaggi e le difficoltà nell’utilizzare questa forma narrativa?
Non c’è dubbio che Dilaga ovunque vada a collocarsi in scia a Muro di casse, dedicato alla sottocultura dei free party, e a La stanza profonda, sui giochi di ruolo: del resto a rinforzare questo legame concorre anche l’uscita per lo stesso editore – Laterza – e nella stessa collana. Quando ho scritto Muro di casse, una decina d’anni fa – il romanzo è infatti uscito nel 2015 – non immaginavo certo che un giorno sarebbe arrivato Dilaga ovunque. Ma dopo aver trattato due sottoculture – e in varie fasi della loro storia controculture – così importanti come i rave e i giochi di ruolo, e così simili nel loro percorso: nate dal basso, mistificate, criminalizzate e infine trionfanti, mi è venuto naturale considerare di affrontare anche il writing, e la street art che da esso deriva. Il percorso, anche qui, è simile; in più, mi permetteva di affrontare un altro tema che mi sta particolarmente a cuore: quello dello spazio pubblico e della sua progressiva riduzione, che va di pari passo con la repressione di tutte le forme di auto-espressione libera e gratuita. Un esempio per tutti, l’orrenda (e anche anti-costituzionale) “legge anti-rave”, il 633bis, che commina a chi balla gratuitamente pene pari a gravi reati contro la persona… proprio come accade in Iran. Il prodromo, per non dire la prova generale, di questa aberrazione, furono le leggi anti-writer che, dopo una vasta campagna stampa incentrata sul presunto problema del “decoro”, trasformarono il reato di imbrattamento nel ben più grave reato di danneggiamento, con conseguenze che si possono immaginare. La differenza metodologica rispetto a un romanzo “tradizionale” è semplice: bisogna studiare molto di più, e soprattutto stare molto attenti a bilanciare le parti narrative con quelle più concettuali.
In Dilaga ovunque, così come in Muro di casse e ne La stanza profonda, la protagonista ritorna a una dimensione giovanile, in cui era possibile una visione alternativa della realtà. Cosa rappresenta nelle tue narrazioni questo ritorno al passato e in che modo integra la visione del presente e l’ideazione di scenari futuri?
Mi piace utilizzare le sottoculture e controculture giovanili come punti di partenza per i miei romanzi perché trovo che uno sguardo obliquo permetta di analizzare le cose in modo più fino, troppa luce, troppo al centro, abbaglia. Poi, ovviamente, c’entra anche il fatto, storicamente incontestabile, che gli anni ’90 erano anni molto più liberi di adesso: stiamo vivendo una lunga, lunghissima fase di riflusso e di guerra dall’alto verso il basso a tutto ciò che è libero, spontaneo e soprattutto gratuito. Non solo a livello sottoculturale: si pensi solo alla guerra costante contro scuola e sanità pubblica. Sul fatto che nei miei romanzi ci sia un ritorno alla dimensione giovanile, a volte anche adolescenziale, forse c’entra il fatto che il mio primo romanzo, Gli interessi in comune, aveva come protagonisti un gruppo di ragazzini.
Approfitto di questa chiacchierata per una domanda che non ha a che fare con il nuovo libro. La tua attività di scrittore si accompagna all’impegno per rendere visibili opere e autori che ritieni validi, per inciso, mai ti ringrazierò abbastanza per avermi fatto conoscere Mircea Cărtărescu. Potresti indicarci qualche opera che recentemente ha suscitato il tuo interesse?
Restando a Est, consiglio sicuramente Olga Tokarczuk, László Krasnahorkai e Georgi Gospodinov. Ma in questi anni sono emersi narratori di primissimo piano anche nel Regno Unito, come Tom McCarthy, Aliya Whiteley o David Mitchell, di cui consiglio spassionatamente il suo capolavoro L’atlante delle nuvole: non fatevi ingannare dal fil mediocre e tamarro che ne hanno tratto le sorelle Wachowski. Il romanzo è tutt’altra cosa.
Mia domanda extra: Cristiana Michelangelo nei ringraziamenti?
È da qualche romanzo che “rompo il quarto muro”: già nella Verità su tutto io stesso figuro tra i personaggi, mentre la protagonista di tale libro, Cleopatra Mancini, firma l’appendice del mio Muro di casse. In Dilaga ovunque sono andato da Cristiana Michelangelo, un mio personaggio (per chi volesse approfondire, è una dei protagonisti dei Fratelli Michelangelo, uscito per Mondadori nel 2019) esperta tanto di street art quanto di arte “ufficiale”, a chiederle una mano per realizzare questo romanzo: era quindi doveroso metterla anche nei ringraziamenti, o si sarebbe offesa.