Vampiri antichi, nella letteratura tedesca: addirittura alla fonte dell’horror moderno, fanno il loro esordio con un breve componimento di Heinrich August Ossenfelder, “Mein liebes Mägdchen glaubet” (“La mia cara ragazza crede”, 1748), in cui un giovane, rifiutato dalla ragazza che ama, minaccia di visitarla di notte, di “baciarla come un vampiro” e di “suggerne il sangue purpureo dalle splendide guance”. È poi nella forma della ballata, genere a metà tra il racconto e la poesia, che verso la fine del Settecento l’immaginario vampiresco si affina e si approfondisce: più ancora che la celebre Lenore (1773) di Gottfried August Bürger, in cui, come nel Dracula di Bram Stoker, si esclama “Hurrah! die Todten reiten schnell!” (“Hurrah! I morti vanno veloce!”), e la voluttà e l’ebbrezza dell’abbandono alla morte segnano la traccia soprannaturale di un’impronta anticristiana che diede luogo a reiterate accuse di blasfemia, è “Die Pferdeknechte” (“Gli stallieri”, 1776) di Johann Heinrich Voß a stabilire paradigmi nuovi, mettendo in scena una genia di “spettri sociali”, avi di un moderno feudatario che tornano a infierire sui contadini, di cui individuano le potenzialità destabilizzanti e che, a loro volta, formano con essi una paradossale alleanza che si regge sul bersaglio comune offerto dal loro debole, moderno discendente. Seguirà poi Johann Wolfgang Goethe, a fissare i limiti di un genere ancora in formazione, con la sua celebre “Die Braut von Korinth” (La sposa di Corinto, 1797) [Scotti\ Pezzini vampire], in cui una giovane morta torna a visitare il suo promesso sposo “per amare quell’uomo già perduto/ e succhiare il sangue del suo cuore”.
Il vero battesimo del vampiro così come lo conosciamo, tuttavia, e quasi in contemporanea con il suo ingresso imperituro nella modernità con John Polidori [Silvia Arzola, “Da Polidori a Varney”, Pulp], si ha nella narrativa del romanticismo, con le storie di revenant e apparizioni sinistre di Fantasmagoriana (edizione francese del Gespensterbuch, il Libro di fantasmi di Johann August Apel e Friedrich Laun, uscito in tedesco nel 1811 e che è all’origine degli incubi e delle visioni di Villa Diodati) e soprattutto con E.T.A. Hoffmann, che a un vampiro atipico (anzi, a una vampira, che secondo una nomenclatura più articolata dovrebbe essere classificata come una ghoul) dedica il suo classico “Vampyrismus” (“Vampirismo”, 1821). Uno studioso poliedrico e acuto come Furio Jesi [Prezzavento], che aveva dedicato al vampiro il suo ultimo corso tenuto all’Università di Palermo prima della sua morte nel 1980, ha individuato nel racconto di Hoffmann una sorta di autoraffigurazione dell’individuo dalla sensibilità estenuata ed estrema, una possibile incarnazione dell’artista, colui che “è tanto vicino alla forza della vita da poterla in certa misura manipolare, da suggerla negli altri viventi e perfino in quel vivente che è il suo stesso io” (Furio Jesi, L’accusa del sangue): perfetta prefigurazione di quello che sarà poi il vampiro decadente, modello che ritorna in Heinrich Heine, la cui opera appare a Jesi fondata su “un inquietante autovampirismo che corrisponde alla scissione tra io-artista e io-uomo” e che ne esalta le contraddizioni proiettandone le caratteristiche sul piano dell’“essere maledetti-privilegiati, ed essere morti-viventi”.
Ma è alla fine di quegli stessi anni Venti dell’Ottocento che si scatena in Germania una vera e propria moda vampirica con l’opera lirica di Heinrich Marschner Der Vampyr (Il vampiro, 1828), rappresentata per la prima volta a Lipsia il 28 marzo 1828, che traduce in bel canto la spaventosa figura di Lord Ruthwen (Marschner si basava in realtà su una drammatizzazione tedesca del racconto di Polidori, Der Vampyr oder die Todten-Braut di Heinrich Ludwig Ritter, 1822). Di tale fervore sono testimonianza i racconti di Die Totenbraut. Deutsche Vampirgeschichten des 19. Jahrhunderts, un’antologia pubblicata nel 2017 dall’editore Spiegelberg e che raccoglie una serie di testi, usciti tra il 1820 e il 1843, in cui le pulsioni romantiche si stemperano in maniera e il brivido metafisico della presenza vampirica scivola via in prosaicità granguignolesca, destinata a nutrire la sete di storie di un pubblico borghese sempre più vasto, non scevra da pruriti erotici, come in questi versi della ballata “Die Vampyren” (“I vampiri”), uscita in forma anonima sulla Abend-Zeitung 102 del 28 aprile 1828: “E nel seno tremante, bianco come la neve,/ Che trepida piano, ha affondato il suo morso;/ Ora inghiotte il sangue con voluttà insaziabile,/ Gocce su gocce scorrono via,/ Sempre più pallido succhia il suo viso roseo/ Finché pian piano i suoi occhi sognanti si spengono”.
Tanto furore si stempera nell’Ottocento mediano, sotto i fuochi algidi del realismo che predomina nella letteratura tedesca fino alla fine del secolo, anche se non mancano le incrinature in quella facciata dominata dal razionalismo: ma sono soprattutto fantasmi, spettri della ragione, che affiorano nella narrativa di grandi maestri del realismo, per esempio in Die schwarze Spinne (Il ragno nero, 1842) di Jeremias Gotthelf o in Der Schimmelreiter (Il cavaliere sul cavallo bianco, 1888) di Theodor Storm. E se nel decadentismo ai motivi vampirici veri e propri si sovrappongono proiezioni di carattere estetico e la figura dell’orrendo succhiasangue si mescola a quella del dandy [Silvia Arzola, “Da Polidori a Varney”, Pulp], mentre il fantastico diviene ghirigoro, decorazione o metafora (è così per gli spettri psicopompi di Thomas Mann nella Montagna magica o per il Tadzio di Morte a Venezia, ancor più per il vampiro vero di “Darfst du bei nacht und bei tag” [1907] di Stefan George: “Se il tuo succhiare mi reca ancora piacere/ Tu che scavi in me il metallo/ Tu che inghiotti da me il vino -/ […] Ti costringerò giù nella bara?/ Ti pianterò il paletto nel cuore?”), è intorno agli anni Dieci del Novecento che la letteratura fantastica di lingua tedesca conosce una vera rinascita, e anche i vampiri tornano in scena. I tre esponenti di punta di questa tendenza si cimentano tutti con tematiche vampiriche: il tedesco Hanns Heinz Ewers, che nel 1921 intitola Vampir (anche se si tratta di un romanzo autobiografico, che trasfigura in termini goticheggianti le esperienze dell’autore negli Stati Uniti all’epoca delle Prima guerra mondiale), il terzo capitolo delle avventure del suo alter ego Frank Braun, dopo Der Zauberlehrling (L’apprendista stregone, 1909) e Alraune (1911), la sua opera più nota, la cui protagonista femminile, la “mandragora” del titolo è a sua volta una vamp, una femme fatale che vampirizza la vita degli uomini e li porta alla perdizione; poi l’austriaco, naturalizzato tedesco, Gustav Meyrink, con racconti come “Der Schrecken” (“Il terrore”, 1902) and “Bologneser Tränen” (“Lacrime bolognesi”, 1903) o con i “vampiri temporali” di “J. H. Obereits Besuch bei den Zeitengeln” (“La visita di J. H. Obereit agli angeli del tempo”, 1916); e infine l’austriaco Karl Hans Strobl, le cui pagine sono piene di misoginia e di vampiri, anzi, soprattutto vampire, donne (o spettri) fatali che succhiano la linfa vitale di uomini inetti e succubi della loro femminilità – vampire psichiche [Danilo Arona, “I parassiti. Vampiri della psiche”, Pulp], quindi, o anche reali, come l’indimenticabile protagonista di “Das Grabmal auf dem Père Lachaise” (“La tomba di Père Lachaise”, 1914) che ritorna dall’oltretomba avvolta nella nebbia di improbabili teorie pseudo-scientifiche per ossessionare la sua vittima, un giovane teorico idealista, ingrassarlo a forza di cibi speziali di aromi forti e visioni irresistibili, per poi nutrirsene e spingerlo alla follia.
Una costellazione, quella di primo Novecento, che prolifera nell’irrazionalismo di quell’epoca e si nutre delle sue angosce, fino ad azzerarsi nella catastrofe del Terzo Reich, in cui non a caso il vampiro scompare, e proprio quando, nella letteratura nazionalsocialista, per un paradosso apparente la mistica del sangue assume un rilievo mai conosciuto prima. Perché, per usare ancora le parole di Jesi, “per gli scrittori nazisti, non solo non esistono censure e autopunizioni, ma non esiste neppure la figura del manipolatore del sangue: egli, il manipolatore del sangue, era concretamente, storicamente presente dinanzi a loro, e ogni coincidenza dell’ambito del mito con l’ambito della storia è una trivializzazione del mito, oppure una sublimazione del mito a ontologia trascendente. L’eroe mitico – in questo caso l’eroe negativo: il vampiro – cede il passo a chi governa o crede di governare la centrale del mito, la macchina mitologica”.
Anche come risposta a tali appropriazioni è da leggersi allora il contributo originale e spiazzante che lo stesso Jesi offre alla letteratura vampirica con il romanzo L’ultima notte (scritto tra il 1962 e il 1970, ma uscito postumo nel 1987). Qui i vampiri, da tempo banditi dal mondo e costretti a nutrirsi del sangue dei morti per sopravvivere, progettano un ritorno in grande stile, un’“impresa epica” destinata ad annientare “i mostri della civiltà urbana”, come scrisse Cesare Cases in una recensione apparsa su L’indice dei libri del mese. Un’impresa non priva di contraddizioni. Le stesse che doveva avvertire Jesi quando, facendo suo un ambito di ricerca pieno d’insidie e di controversie come quello del mito, agiva con le sue forze di studioso lucido e coerente per riportarlo nell’orbita dell’indagabile e del conoscibile, sottraendolo alle manipolazioni mistificatorie del potere, al monopolio di una cultura ostile alla vita e votata costituzionalmente a usarlo come strumento di omologazione dell’esistente.
Ma per tornare alla letteratura tedesca: i vampiri non muoiono, si sa, e tornano ad affiorare nel dopoguerra: annacquati nel feuilleton e nelle serie commerciali, ma anche in autori insospettabili, come nel romanzo dello svizzero Adolf Muschg, Das Licht und der Schlüssel (La luce e la chiave, 1984), che reca come sottotitolo “Romanzo di formazione di un vampiro”: un vampiro olandese, borghese, che trova nell’arte la faticosa strada di una redenzione possibile. Oppure in “dracula dracula” (1966) di Hans Carl Artmann, austriaco, uno dei più audaci sperimentatori formali della poesia contemporanea, tra i fondatori della Wiener Gruppe: qui, in una vertiginosa, serissima parodia, sullo sfondo di una Transilvania grottesca in cui anche il caffè è salato e ha un lieve sapore di sangue, la creatura di Stoker si unisce a Carmilla, a Nosferatu e agli dei immondi del Necronomicon per generare altre lingue e altre scandalose morali. Uscito anche in Italia in una rara edizione – Geiger, 1976 – con il titolo “Dracula, Dracula (un’avventura transilvana)” e traduzione di Giovanni Anceschi, il racconto di Artmann pone le sue le acrobazie verbali al servizio di una straordinaria riscrittura dei fondamenti del mito, alternando brani in tedesco ad altri in transilvano, i caratteri latini con un cirillico fantasioso. Da Anceschi riprendo la Litania segreta dei contadini del contado di Mandrak, l’ipnotica invocazione che Artmann scrive per il conte sanguinario, inserita a metà del suo racconto:
Dracula che come una carogna dài fetore
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Dracula come di birra sangue bevitore
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Dracula di vittime l’eterno cercatore
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Dracula tu della trinità bestemmiatore
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Dracula tu dell’intero mondo viaggiatore
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Dracula tu che gli occhi congeli nel terrore
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Dracula dagli avelli emergente
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Dracula come blatta strisciante
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Dracula tu che ti ammogli ripetutamente
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Dracula tu d’incesti perverso praticante
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Dracula sopra Mandrak volante
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Dracula sul letame dormiente
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Dracula tu delle arterie suddito adorante
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Dracula tu che ti moltiplichi costantemente
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Dracula tarlo della buona stella
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Dracula drago del cuore e delle cervella
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Dracula signore dei cigli vermigli
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Dracula maestro dei denti e degli artigli
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Una preghiera di devozione e di trasgressione. I vampiri, come è scritto nella loro storia (nel sangue, verrebbe da dire), continuano a oscillare tra la cultura popolare e l’avanguardia, tra la tradizione e l’innovazione, fedeli al loro ruolo di destabilizzatori dell’ordine e, speriamo, dell’esistente.
Bibliografia
L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, intr. di David Bidussa, Torino, Bollati Boringhieri, 2007