Valerio Romitelli / Seppelliamo i morti, purché i vivi si facciano avanti

Valerio Romitelli L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia, Derive Approdi, pp. 222, euro 22,00, stampa

Valerio Romitelli pubblica L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia con l’intento di far conoscere il suo percorso di ricerca politica che lo ha portato a maturare un certo distacco dalla sinistra e la definizione di “post comunismo” per le sue proposte.

Sia chiaro che Romitelli, che ricordiamo per lo splendido La felicità dei partigiani e la nostra del 2017, non rinnega certamente il passato, né demonizza il comunismo, ma lo sottopone ad una attenta disanima e ne mette in luce gli aspetti problematici, rappresentati dalla fine degli ideali internazionalisti di uguaglianza sociale tramutati, come sostiene, dalla nascita in Cina di una sorta di nazional comunismo. Va detto che Romitelli pensa allo scostamento dal pensiero di Mao della dirigenza cinese. Altri pensatori, uno per tutti Domenico Losurdo, vedono nella potenza cinese quella che ha tolto dalla miseria milioni di individui e ritengono che i problemi nascano perché la realizzazione di un sistema sociale diverso non è mai progressivo e utopico, ma si scontra con errori e regressioni che un’umanità in cammino concreto incontra sul suo percorso.

Il libro si articola in 13 punti che affrontano 13 pressanti questioni che interrogano chi non sopporti più lo stato presente delle cose. Un libro dunque che può sollevare molte discussioni, se qualcuno se ne farà carico. La parte secondo me più interessante è quella in cui l’autore, allievo e sodale di Alain Badiou, sottolinea – secondo il concetto di potere “produttivo” di Foucault – il carattere non solo repressivo, ma creativo di modi di pensare e di visioni del mondo tipiche dell’ideologia neo liberista. Ne cito alcuni, quelli che maggiormente oggi sono sulla bocca di tutti, privi di analisi critica. Per il neo liberismo è giusta l’uguaglianza formale dei cittadini, dunque i diritti, in particolare quelli delle donne, che dovrebbero sviluppare il cosiddetto e individuale empowerment femminile, auspica la filantropia e il soccorso dei deboli, anche attraverso il sostegno ad alcune ONG dalle azioni non sempre limpide, sostiene la “comunicazione” che spezza le barriere delle discipline dure e rigide a favore di saperi tesi al problem solving, minimizzando il valore della teoria, sostiene la democrazia, eventualmente da esportare, e l’ambientalismo che serve alla riconversione industriale “verde”.

Insomma accanto al capitalismo spietato delle guerre e delle multinazionali si affianca il neo liberismo democratico e caritatevole, rappresentato da figure ambigue come quella di Bill Gates o George Soros, che spendono milioni di dollari per lo sviluppo di sistemi democratici nel mondo, contro povertà e cambiamenti climatici.

Ecco un primo punto di discussione. Mi pare che Romitelli faccia alla sinistra un altro tipo di critica: l’idea ancora molto diffusa che il popolo sia oppresso da un sistema di dominio totalitario, ma che, liberata dalle catene, la moltitudine possa manifestare la sua umanità conculcata, oppure l’idea per lui superata che la coscienza di classe sia portata alle masse da intellettuali e studiosi, oppure la speranza mai sopita che il capitalismo collassi, spinto dalle sue stesse crisi interne, o ancora che il capitalismo sia un sistema di dominio dove non si aprano crepe e vuoti dai quali può emergere (o insorgere, come dice l’autore) un evento imprevedibile che possa modificare la realtà in modo del tutto inaspettato.

Insorgenze che si sono manifestate invece già in passato, sia con la lotta partigiana, spesso slegata da direttive di partiti che non c’erano o, come il PCI, erano attraversati da forti discussioni su come procedere nella lotta, o durante la rivoluzione d’ottobre quando Lenin smentì nella pratica la tesi che bisognasse prima passare per una fase di creazione e rafforzamento della borghesia. Su questi temi e sul giudizio da dare sulla Comune di Parigi mi pare che il discorso di Romitelli sia molto interessante.

Ma ritornando ai limiti della sinistra il difetto maggiore che a mio avviso l’autore non sottolinea abbastanza è che le idee neo liberali sono entrate perfettamente nel modo di pensare della sinistra esterna al PD. Più che il difetto di non essere in relazione concreta con le masse mi pare che la pecca grave sia aver assimilato quel pensiero e quel linguaggio. Da questo punto di vista l’entusiasmo per le rivoluzioni colorate o il giudizio su Gheddafi e la Libia ne sono un chiaro esempio. Se non c’è una ripresa del pensiero critico verso le cosiddette idee “buone” del neo liberismo mi pare difficile creare forme di lotta davvero efficaci. Se della politica estera sappiamo solo cosa ne dice la stampa del nostro paese sarà difficile apprendere qualcosa di diverso dalla mostrificazione o dal dileggio che la democrazia fa dei cattivi di turno nello scacchiere internazionale.

Interessanti mi paiono alcuni punti trattati da Romitelli. Primo fra tutti l’idea che il capitalismo non copra tutta la società con un manto impenetrabile, ma che esistano zone franche, spazi liberi in cui qualcosa di nuovo può emergere. E quando qualcosa emerge non la si può giudicare a priori ma lo si deve fare retroattivamente e fuori dagli schemi usuali.

Accadde così dopo il 1789, quando la presa della Bastiglia divenne avvenimento significativo della rivoluzione francese, o dopo il 1945, quando si comprese l’importanza dirompente che aveva avuto la Resistenza nel ridare protagonismo ai soggetti e rendere meno drammatica la fama dell’Italia nei consessi internazionali, o quando il ‘68 e il ‘69 svelarono negli anni successivi la ricchezza dei mutamenti che quelle lotte avevano innestato. Questo riconoscimento a posteriori dell’importanza delle lotte pone una questione decisiva.

“La politica sta fuori da ogni regime giuridicamente definito o forma di governo. Ammettere questa esteriorità della politica da qualsiasi contesto legale, etico o istituzionale, può sembrare scandaloso, se non malavitoso. Ma fuori dal legale, dall’eticamente corretto, dall’istituzionalmente definito, non c’è solo il loro contrario, ovvero l’illegale, il malefico, l’anti istituzionale. C’è quella dimensione incerta, indistinta, di un sociale indeciso, ancora vuoto di di ideali o viceversa di cattive intenzioni, dove ogni politica, se e quando esiste a suo modo, per giusto o ingiusto che sia, trova le sue risorse collettive fondamentali”.

In questo passaggio l’autore descrive con efficacia quello che intende per politica, insorgenza ed evento. La capacità cioè di approfittare di vuoti e varchi che si creano nella trama del potere per creare situazioni nuove e dirompenti, che è possibile giudicare solo dopo l’accaduto.

Non sono solo queste le questioni che l’autore discute nelle dense pagine del suo scritto, ma affrontarle tutte non è possibile.

Un aspetto appare interessante ed è il metodo che suggerisce per colmare quella lacuna che si è aperta tra chi si sente militante politico e la realtà in cui si trova. L’esigenza di comprendere la realtà delle vita dei lavoratori o dei migranti conducendo inchieste e andando a vedere nella vita dei corpi sociali quali sono le condizioni reali, le faglie, il reale e l’immaginario in cui è possibile intervenire per conoscere e per cambiare.

Certamente l’inchiesta operaia dai tempi di Romano Alquati, Sergio Bologna e la rivista ‘Primo Maggio’, che oggi bisognerebbe aggiornare con altri strumenti di tipo antropologico, si è sempre rivelata uno strumento indispensabile. Penso però anche ad altre pratiche, come quella femminista, in cui il ricercatore, riflettendo con altri sulla propria condizione non solo di lavoratore manuale, ma anche di intellettuale, di precario della ricerca, di giovane, può trovare dentro di sé le distorsioni culturali, psicologiche ed affettive prodotte dal sistema sociale in cui vive e non considerarle più problemi personali o carenze emotive da curare con farmaci e psicoterapie, ma prodotti di un sistema che collettivamente si vuole cambiare.