Di cosa si parla quando si parla di “autunno caldo”? Le semplificazioni di volta in volta scolastiche o giornalistiche, rinforzate dalle voci Wikipedia tuttora consultabili, danno un’interpretazione ristretta alle lotte operaie del biennio 1969-1970, come se il fervore di quegli anni fosse stato immediatamente e irrimediabilmente fagocitato dagli anni della strategia della tensione Semplificazione che forse si verifica di nuovo, e non per caso, nei due mesi e mezzo che passano tra Genova 2001 e l’11 settembre di quell’anno.
Nel suo nuovo romanzo, invece, Valerio Monteventi fornisce un affresco molto più ampio dell’autunno caldo, andando dal 1968 fino alla metà degli anni Settanta. Un’apertura resa possibile, innanzitutto, dal lavoro di documentazione svolto dall’autore presso il Fondo Prefettura dell’Archivio di Stato di Bologna, nonché presso altri archivi – tra cui quello intitolato a Francesco Lorusso e Carlo Giuliani, con sede presso il centro sociale bolognese Vag61 e curato, fra gli altri, dallo stesso Monteventi – allo scopo di ricostruire la storia di quegli anni attraverso i rapporti sistematici, quasi quotidiani, che venivano stilati da polizia e carabinieri sui gruppi operai e studenteschi.
La logica della narrazione risulta, a questo punto, strettamente consequenziale a questo immane lavoro d’archivio, assumendo direttamente il punto di vista degli infiltrati della polizia politica tra operai, operaie, studenti e studentesse. La prospettiva, infatti, è quella del commissario Lotorto, capo della Polizia Politica di Bologna, e dei suoi tre subordinati, Oronzo, Italo e Carmine. Oronzo, in particolare, viene scelto per entrare in fabbrica sotto falso nome – alla Ducati Elettrotecnica, ovvero uno dei centri più importanti della mobilitazione di quegli anni – e per controllare da vicino cosa stia accadendo. Ne scaturiscono lunghi rapporti e confronti tra i quattro poliziotti, che costituiscono anche l’impianto di fondo del libro – teso, come si è accennato, a restituire un affresco storico d’insieme, più che a impegolarsi nelle vie impervie della manipolazione finzionale. Dai rapporti tra gruppi operai e studenteschi alle fronde reazionarie a loro opposte e magari prezzolate (memorabile, a questo proposito, la figura dell’operaio della Ducati chiamato da tutti “Radio Vaticana”), dall’ineluttabile confronto con gli eventi e le dinamiche della strategia della tensione alla lotta per lo spazio della piazza con l’MSI di Almirante, dal protagonismo femminile nelle lotte alla figura vagamente romanticheggiata di Franco Bifo Berardi (così diverso da quel “generatore automatico di deterritorializzazione” che è la sua rappresentazione principale nel film Paz! del 2002 di Renato de Maria, riferita al periodo successivo, ovvero al Settantasette): questi sono alcuni dei tanti spunti di riflessione e approfondimento del libro sul piano storico.
Tuttavia, un dato afferente alla psicologia dei personaggi che appare a più riprese e che avrebbe forse meritato un ulteriore approfondimento prima dell’epilogo della storia, è la fascinazione di Oronzo e, probabilmente, anche di Carmine e, soprattutto, del commissario Lotorto, per il campo nemico. Chi si infiltra si espone al contagio, verrebbe da dire, soprattutto quando le argomentazioni e le pratiche della lotta evocano temi comuni, esperienze biografiche simili, e ancora di più dilemmi politici magari soffocati e repressi al momento di scegliere la divisa. Nella narrazione di Monteventi, in altre parole, si sente come basso costante una strenua fiducia nelle possibilità di una creazione di consenso, se non di egemonia, da parte delle lotte operaie e studentesche di quegli anni. Ciò appare possibile anche a chi scrive, in virtù di un’analisi economica e politica convergente, ma non può che acuire, d’altra parte, il confronto tra quell’autunno caldo e quello evocato più volte negli ultimi anni. A questo proposito, conviene sottolineare come Monteventi conosca da vicino la vertenza GKN e il processo di aggregazione politica che si è prodotto e continua a riprodursi intorno a quella vertenza; sul piano del dibattito culturale, inoltre, è un sostenitore della riscoperta della working class literature, promossa, tra gli altri, da Alberto Prunetti in stretto contatto con la mobilitazione operaia fiorentina. Vale ricordare che Monteventi è autore, nell’ultimo decennio, di almeno tre testi da ricordare, per sottolineare il lavoro portato avanti non solo in ambito bolognese, ma anche nazionale: Berretta rossa. Storia di Bologna attraverso i centri sociali (Pendragon, 2011, in collaborazione con Serafino d’Onofrio), Come si fa. Tecniche e prospettive di rivoluzione (Manni, 2012, con Bifo) e Ruggine, meccanica e libertà (Alegre, 2018)
Per tornare a questo libro, dunque, la distanza tra il “come si faceva” e il “come si fa” – per riprendere il titolo del volume scritto con Bifo – non è misurata con l’occhio critico, e comunque chiaramente nostalgico, degli ultimi film di Loach, con il loro costante riandare alle lotte dei minatori del Regno Unito sotto il governo Thatcher. Il punto di vista dell’infiltrato ha, appunto, il pregio di evitare ogni possibile collusione con la nostalgia. Ma, appunto, “come si faceva” e “come si fa” è un doppio interrogativo che la vertenza appena aperta alla Magneti Marelli di Crevalcore e di Bologna, per dirne una, continua ancora oggi a porre, con la stessa forza di quegli anni.