Per molti, gli Anni ’90 sono cominciati con il crollo del muro di Berlino, per qualcuno con il secondo disco dei Nirvana o da quando nei film non si vedevano più gli yuppies. Per chi scrive erano cominciati qualche mese prima, quando a Boston un giovane con i dreads, agitando un guanto collegato a dei cavi elettrici che si perdevano nel vuoto davanti alla platea del Siggraph – massimo simposio per la Computer Generated Imagery (CGI) del tempo – domandò in tono retorico da imbonitore: “Se siamo tutti qui per guardare attraverso i monitor un nuovo mondo digitale. perché allora non entrarci dentro?”. Quel ragazzo era Jaron Lanier, oggi più noto come fustigatore del “totalitarismo cibernetico” dei social, al tempo pioniere della Realtà Virtuale (e per la proprietà transitiva, ora, del “metaverso”), nonché indiscussa icona freakettona della scena tecnologica californiana.
Il “dentro” e il “fuori”, nell’incontro asimmetrico tra il soggetto umano e l’intelligenza aliena della macchina digitale, sono anche i termini usati in Exmachina di Valerio Mattioli, autore di Superonda (Baldini & Castoldi, 2016) e Remoria (Minimum Fax, 2019), per descrivere il crinale degli anni ’90 dal punto di vista della musica elettronica che emerge in quel momento storico, con il suo portato di sostanze chimiche, di sensibilità e di trasformazioni indotte, in totale discontinuità con l’”autenticità” sbandierata del rock dei padri come con il no-future post-punk dei fratelli maggiori. La “techno” è infatti proprio il futuro tanto atteso, perché è la musica della macchina, il ritmo pompato dell’afrofuturismo, il suono di Detroit che ha rapidamente conquistato Londra e l’Europa. La storia comincia qui ma poi si sdoppia e ben presto il libro ne racconta un’altra: quella del “divenire nerd” che accompagna pochi anni dopo il passaggio dall’hardcore dei rave e del groove danzereccio alla “dance d’ascolto” più intellettuale, all’ambient che non fa più muovere il culo, che sempre più spesso si consuma nelle camere ikea degli adolescenti, accanto all’Amiga o alla consolle dei videogiochi. E dunque alla Intelligent Dance Music (IDC), come alla fine viene ribattezzata.
La copertina di Artificial Intelligence – l’antologia manifesto con cui la Warp Record nel ’92 inaugura la tendenza – è, da questo punto di vista, emblematica e perfettamente decostruita da Mattioli: all’interno di una stanza, un androide metallico dall’espressione rapita è sdraiato in poltrona davanti a un impianto stereo mentre si fa una canna emettendo densi anelli di fumo. Per terra, riconoscibili e iconiche, giacciono le cover dei due dischi più famosi di Kraftwerk e Pink Floyd, e non si tratta tanto di credits musicali quanto piuttosto di un ironico riferimento alla postura d’ascolto del vecchio prog “da camera”, di un passato ormai remotissimo. La metafora nell’insieme è fin troppo urlata: l’esperienza di questa musica, abbinata alla giusta sostanza strippante, non è semplicemente uno sballo ma è trasformativa, è il lasciapassare per il mondo della macchina che sognavi e dove, finalmente, non sarai più “te” stesso.
Così, mentre nel nascente universo delle cyber culture – dai Kroker a Mark Derry, da Kevin Kelly a Howard Rheingold, ai teorici riciclati della stagione psichedelica come Timothy Leary e John Perry Barlow (i ’90, dopotutto, sono i ’60 rovesciati) – esplode l’hype per futuro digitale e per il suo corollario, le comunità virtuali, che attraverso il World Wide Web cominciano a rivelarsi ai comuni mortali (e anche se una pagina scaricata al minuto non è proprio quella “velocità di fuga” che si era detto, per il momento ci si accontenta), la musica come al solito fa da apripista. Per entrare qui non serve la tuta delle realtà virtuali di Lanier, bastano un PC, un programma e una tastiera.
E l’elettronica degli anni ’90, una cascata di suoni sintetici e di ritmi meccanici annidati dietro al più familiare 4/4, fa davvero ben poco per sembrare “umana”. Per una generazione – mi sembra la tesi del libro – è stata anzi come il trailer di un futuro alieno diventato nel frattempo il nostro presente, un futuro-presente dove il “non umano” guadagna terreno fino a gravare sulla prospettiva della nostra prossima e possibile estinzione (come recita il sottotitolo di Exmachina). Svanita la smania retrospettiva e un po’ nostalgica che fino a pochissimi anni fa spingeva a guardarsi indietro, a confrontarsi con metafore ancora novecentesche, a pensare ai social come a una grande agorà, ecc. – il futuro è tornato oggi in grande stile e con lui sono tornate di moda persino le copertine sberluscenti di Wired. Interpretato sulla scena del mondo da figure come Elon Musk, Peter Thiel, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg o Sheryl Sandberg, il presente sfugge ogni giorno di più, accelerato e immodificabile, mentre da quel miscuglio di Ayn Rand, transumanismo e legacy libertaria, definito a suo tempo “ideologia californiana”, emerge ora la gnosi di un capitalismo tecnologico che ha naturalizzato l’homo economicus e, al tempo stesso, dichiarato il suo corpo obsoleto.
Aphex Twins, Autechre e Board of Canada sono la sacra Trimurti dell’IDM che Mattioli analizza nelle pagine di Exmachina con zelo certosino e ampio, documentato supporto teorico di autori come Kodwo Eshun, Mark Fisher, Simon Reynolds (sua l’introduzione di Exmachina). Dei tre, Aphex Twins risulta indubbiamente il padre nobile ma anche il trickster, il buffone geek, geniale e mezzo matto, l’eterno polimorfo perverso impegnato a smentire a ogni uscita le ingombranti definizioni di Stockhausen o Mozart della dance elettronica che gli piombano addosso. L’unico, dopotutto, ad aver acquisito uno status da popstar e a fare da ponte con il sistema, presentando a milioni di fan il doppio volto di un’umanità ambigua e ridanciana.
Nella parabola di Autechre la musica diventa, invece, sempre più autonoma da qualsiasi valenza autoriale. Musica procedurale, stocastica, che emerge, con granularità e trama spesso sbalorditive, dalla complessità originata dal software, dalla programmazione. Il duo di Manchester riprende da Brian Eno – pioniere dell’ambient anni ’70 e unico precursore credibile del genere, a parte forse i Cluster – l’idea che la musica possa autoregolarsi per evolvere all’infinito, portandola ben presto agli estremi di un canone quasi monacale, tant’è che i loro dischi non fanno pensare a paesaggi o aeroporti ma evocano piuttosto l’immagine poco rassicurante di uno sciame di ragni robot. Malgrado ciò, e forse proprio per questo, la musica di Autechre, rimane perfettamente “ballabile”, ma non da corpi umani, per i quali in realtà non è mai stata creata. Di qui, osserva Mattioli, i punti di contatto con i padri della cibernetica inglese, con la visione olistica di Stafford Beer, con le tartarughe robot di William Grey Walter, con l’omeostasi e i comportamenti adattivi degli automi ipotizzati da William Ross Ashby.
Ultimi arrivati i Board of Canada, duo scozzese composto dai fratelli Michael e Marcus Eoin Sandison, devono il loro nome non per caso al colosso del film documentaristico, il National Film Board canadese, vera memoria storica del Canada, il paese dove i due si sono ritirati da tempo. Rivelatisi al pubblico in un’epoca leggermente più tarda, e già musicalmente incline alla retromania, i dischi di BOA sono popolati da atmosfere morbide e fuori fuoco come la vecchia polaroid che compare sulla copertina del loro primo cd. Salutati dalla critica come alfieri di un’elettronica “più umana”, rappresentano in realtà, nello schema di Exmachina, lo stadio terminale del processo: una musica volta a ricreare attraverso l’elettronica, spesso analogica, il supporto di una memoria e un banco di ricordi organicamente non più accessibile agli umani e perciò ora direttamente fornito dalla macchina.
Exmachina è un bel libro, interamente girato in soggettiva, rispetto a Superonda meno ricco di memorabilia e più denso di collegamenti e incursioni critiche. Imperdibile per i cultori della materia.