Dodicesimo titolo della serie VS di “Stile Libero” – tutta dedicata a confronti dicotomici (Oriente e Occidente di Federico Rampini, Sparta e Atene di Eva Cantarella, Pasolini e Moravia di Renzo Paris e via dicendo) –, il Proust e Céline di Valerio Magrelli non è esattamente un duello a singolar tenzone, ma una vera e propria “aggressione postuma” del secondo sul primo (Louis-Ferdinand Céline esordì, infatti, con il suo testo più noto Voyage au bout de la nuit nel 1932, dieci anni dopo la morte di Marcel Proust). Aggressione che assume le screziate e sempre più aeree colorazioni di “acredine, avversione, ripugnanza” ogniqualvolta il furibondo Céline apra bocca per parlare del dandy-asceta Proust: va da sé che l’odio e la misologia – quasi una mistagogia –, segnalati da Magrelli all’interno di una ricerca elettiva ben più ampia, hanno valore puramente estetico e possono, addirittura, diventare il “motore stesso” di un’opera letteraria, laddove invitino scrittori e poeti non certo alla distruzione dell’alterità (per fortuna!), ma al suo esatto contrario: la creazione.
Ma si potrebbe allargare il discorso a quella che Bloom definiva “angoscia dell’influenza”: ovvero, l’apposito travisamento a fini agonistici, se non di schietta soperchieria, contro un autore considerato forte da parte di un altro altrettanto prode, per via di una sorta d’indistinto coassiale emotivo fatto di odi et amo, ammirazione e ressentiment. Magrelli ci addita, quindi, uroboralmente la scrittura “a propulsione-odio” di Céline, perfetta per disinnescare ogni languore proustiano, malattia e farmaco di un ipocondriaco spirituale (Céline, appunto), adiacenza e irreversibile lontananza dal preferito dei bersagli (Proust). In questo mixed up confusion, nel minestrone cioè di astiose amorevolezze presentate con intrigo e finezza psicocritica, si celebra l’ossimorico testa-a-testa (evidenziato anche da un preclaro Claude Lévi-Strauss): “Credo che l’odio provato da Céline per Proust – osserva Magrelli – sia tale da valere almeno il doppio. È un odio che, da solo, basta per tutti e due, un odio attraverso il quale comprendiamo l’opera del primo come quella del secondo. È un odio viscerale e insieme epistemico, non tanto emotivo, quanto conoscitivo, capace di guidarci verso la verità di due poetiche intimamente, inesorabilmente antagoniste”.
Gli antagonismi – resi ancora più solidi dai capitoli che ne riassumono e riassorbono la parabola, Céline è lo stile e Proust, mente, odio – aumentano di volume e spessore, se entrambi (con Proust après lettre) naufragano nel dolce mare della Forma, se entrambi sono pervasi da aloni acuti di mestizia, aumentata di grado con il gemello diniego di Gallimard – blood brothers, “vittime del gran rifiuto” – e sfociata (o forse è il contrario) in uno slargo nichilistico. È appunto in queste consonanze, sapidamente concertate da Magrelli, che si può scorgere una “vicinanza” non altrimenti che “fraterna”. Céline, come Proust, è un détraqué, uno sbandato “costretto a immaginare altri mondi in cui gli sia finalmente consentito di vivere”. Envers du décor del libro, la strana coppia è così, unitamente, alla recherche. A differenza di un Gide che “redige i suoi romanzi con la compiaciuta placidità di un notaio” (Carlo Bo direbbe con i “documenti letterari in ordine”), Proust “trasforma la vita” perché “in fondo, non viveva bene” (parole di Céline). Nel “trasporre” l’esistenza con sofferenza “in un binario magico, in un merletto magico chiamato letteratura”, secondo Magrelli, accade l’impensabile coup de foudre tra i due. L’odio ideale è diventato amicizia, il tentativo inconscio di raggiungersi è adesso piena congiunzione, condizione autentica del mestiere di scrittore.