Se si consulta la bibliografia di Valerio Evangelisti alla voce a suo nome su Wikiwand ci si rende conto, vedendo raggruppati per cicli i numerosi volumi della sua produzione narrativa, di quanto vari e diversificati siano gli ambiti in cui lo scrittore bolognese ha esercitato il suo talento. Il ciclo di Eymerich, concluso nel 2018, probabilmente quello che lo ha reso più famoso; la trilogia di Magus; quella di Pantera; la trilogia americana; il ciclo messicano; la trilogia dei pirati; il ciclo de Il sole dell’avvenire, in cui ancor più approfonditamente vengono affrontate problematiche politiche e sociali. In fondo, isolato, come fosse un episodio a sé stante, e definito Fuori serie, il suo penultimo romanzo, del 2019: 1849. I guerrieri della libertà. Con l’attuale uscita de Gli anni del coltello, ecco invece che anche questo testo acquisisce un seguito ponendo in atto un nuovo ciclo – assai stimolante da molteplici punti di vista – che potremmo definire “risorgimentale” o piuttosto antirisorgimentale (termine da intendersi non certo come contro-risorgimentale ma – lo spiegherò più avanti – specchio di un Risorgimento alternativo, estraneo alle celebrazioni istituzionali e a ogni vulgata edulcorante).
Si dimostra più che mai utile riflettere sulle contraddizioni della nostra storia nazionale fin dalle sue origini, il processo di unificazione stesso, tracciandone scenari inediti dalla prospettiva, sempre ignorata, delle classi subalterne. Pochi autori contemporanei lo hanno tentato, forse solo Luciano Bianciardi, alle cui opere più tarde certe pagine di questo romanzo e del precedente possono ricondurre. Ma è soprattutto la grande tradizione del feuilleton popolare che, come sempre, viene tenuta presente da Evangelisti e alla descrizione vivida e pittoresca dei personaggi o al ritmo concitato delle scene d’azione si attiene egregiamente – con sicura soddisfazione dell’autore – l’aggettivo “salgariano”.
Quello che possiamo considerare, a questo punto, il primo episodio di un nuovo ciclo narrativo si soffermava sugli eventi della Repubblica romana del 1849 e sulla sua tragica fine a opera dell’esercito della Repubblica francese presieduta dal reazionario Luigi Napoleone Bonaparte, di lì a poco Napoleone III con l’avallo di Pio IX e dei cattolici, vissuta sulla pelle del popolo romano e dei molti idealisti – giacobini, mazziniani, garibaldini, protosocialisti – accorsi a difenderla.
Il punto di vista prevalente, in uno scenario sostanzialmente corale, era quello del fornaio ravennate Folco Verardi, capostipite della stessa famiglia Verardi protagonista della trilogia de Il sole dell’avvenire, così che molti recensori avevano parlato, a proposito del romanzo, di un vero e proprio prequel di quel ciclo narrativo. In questo secondo episodio invece si affrontano gli anni difficili della repressione pontificia e asburgica posteriore alla rotta delle forze repubblicane tra il 1849 e il 1854, alla crisi del mazzinianesimo – anchilosato in una visione martiriologica e irrealistica del moto insurrezionale – e all’avallo da parte dell’Apostolo di una strategia terroristica basata sull’azione diretta e sull’attentato individuale contro gli alfieri della reazione (fase regolarmente insabbiata nelle ricostruzioni dei libri di storia correnti e “dimenticata” nelle agiografie idealizzanti sul Padre della Patria Giuseppe Mazzini): gli anni del coltello, per l’appunto, anni disperati, in cui si passa di sconfitta in sconfitta, mentre il Partito d’Azione si trasforma in Compagnia della Morte nell’impraticabilità di tattiche più efficaci e meno canagliesche di lotta politica.
Folco Verardi questa volta appare solo di sfuggita fra i personaggi secondari e il protagonista è il forlivese Giovanni Marioni, detto Gabariol, uomo coraggioso e determinato ma ignorante e rozzo, mazziniano di cuore e ancora più di pancia, non certo di testa. Sostanzialmente un assassino che giustizia a pugnalate, senza rimorsi, sbirri, spie e capibastone reazionari infinitamente peggiori di lui e probabilmente meritevoli della sorte loro inflitta: una persona a suo modo giusta ma che, fino all’ultimo, non ha la lungimiranza di capire l’inefficacia e la disutilità di mezzi che un per altro poco chiaro fine non giustifica (l’evidente parallelo con eventi a noi storicamente molto più vicini non è certo casuale).
Assai più realistici i “fusionisti” hanno capito invece che seguire Mazzini su questa strada porta al suicidio in senso proprio e in senso politico, e, Garibaldi compreso, stanno rinunciando alla pregiudiziale repubblicana per ripiegare sull’appoggio a Cavour e alla monarchia sabauda per sconfiggere l’Impero austriaco e ottenere finalmente l’unificazione italiana non con l’insurrezione ma con l’annessione manu militari al Regno di Sardegna. Si tratta però di borghesi e di benestanti che i plebei come Gabariol considerano dei traditori degni dello stesso pugnale riservato ai reazionari: un’idea di lotta di classe comincia a farsi strada nei ranghi popolari ma il concetto fumoso del “Dio e Popolo” mazziniano, cui restano fedeli, continua ad allontanare la maggior parte di loro da qualsiasi simpatia verso il socialismo, anche se il nome di Proudhon, per quanto storpiato, comincia a essere conosciuto.
A parte Verardi e Gabariol, tutti gli altri personaggi, maggiori e minori, sono storici e documentati dalle fonti che Evangelisti scrupolosamente raccoglie nell’abituale nota bibliografica che chiude questo come tutti i suoi romanzi storici. Ugualmente reali sono gli eventi narrati: la fallimentare rivolta milanese del 1853 (del tutto dimenticata, a differenza delle più gloriose Cinque giornate), l’attentato riuscito ma inutile al duca Carlo III di Borbone a Parma, ecc. Si stagliano su tutte, per incisività di caratterizzazione, le figure tragiche dei due personaggi più famosi: Felice Orsini e Carlo Pisacane, uomini seri e serissimi – come li definisce Evangelisti nel rispettivo titolo del capitolo a loro riferito – entrambi avviati al loro prossimo, infelice destino: il primo ghigliottinato a Parigi dopo aver lanciato tre bombe contro Napoleone III facendo dodici morti ma lasciando illeso l’obbiettivo, il secondo inforcato da quegli stessi contadini meridionali che avrebbe voluto istigare alla rivolta nell’impresa di Sapri.
Nel ricostruire questa sequela di disfatte e di rovine Evangelisti sembra rispettare la caparbia ostinazione, l’inderogabile dedizione alla causa dei patrioti ma condannarne la cecità e l’irragionevolezza. Le continue riunioni in bettole e osterie di periferia, annaffiate di eccessive libagioni di lambrusco che incrementano il coraggio quanto l’improvvisazione, non possono preludere che a generose ma sterili imprese. Solo le donne mantengono giudizio e capacità di visione – i personaggi femminili sono sempre i più sagaci e sensati in Evangelisti, senza per questo rinunciare alla passione e alla sfrenatezza erotica: come la Marietta del romanzo – ma non vengono ascoltate abbastanza dai loro uomini.
Gli anni del coltello si chiude su toni più amari del precedente 1849 che pur nella descrizione di una sconfitta generale lasciava intravedere barlumi di speranza almeno sul piano della salvezza individuale (ma non soltanto): qui i protagonisti sembrano invece incatenati in circolo vizioso (o forse virtuoso), in un’oscura coazione a ripetere senza possibilità di sviluppi o di uscita. Restiamo in attesa delle prossime tessere del mosaico, le fasi ulteriori storiche e narrative nel corso delle quali, forse, il ciclo “risorgimentale” andrà a riconnettersi con quello del Sole dell’avvenire.