On line, off line

Valentina Tanni, Memestetica, Nero Editions, pagg. 252, euro 18 stampa, euro 7,49 epub

La distinzione tra autore e pubblico è in procinto di perdere il suo carattere sostanziale (Walter Benjamin)

Tutto è registrato. E se è registrato può essere editato, e se può essere editato il suo significato è arbitrario, dipende della persona che edita. La magia è questa. (Genesis P Orridge)


Se potessimo tirare una linea ideale tra l’epoca delle avanguardie storiche, testimoniata da Benjamin, e il presente interconnesso da Internet,  la generazione di Genesis P Orridge – cioè la generazione del punk, dei mixtapes, delle post-avanguardie e, in campo lungo,  del post ’68 – si troverebbe probabilmente a metà strada, senza per questo voler significare particolari collegamenti storici ma, forse, a segnalare una linea di pensiero non troppo sotterranea che ha attraversato il secolo breve dell’arte, per arrivare fino ai giorni  nostri.

Valentina Tanni in Memestetica si muove con un gioco di specchi e di fitti rimandi testuali, lungo questi tre piani temporali, in un viaggio attraverso il maelstrom dell’immagine digitale contemporanea.  A guidarci nella traversata sono alcuni dei nuclei sperimentali e dei net-artisti che più di altri hanno provato a fare i conti con una mutazione che, in pochi anni, ha completamente trasformato il nostro modo di comunicare con le immagini e, soprattutto, di intrecciarle ogni minuto con le nostre vite, passando via via dalle pagine Web degli anni ’90 a Tumblr, Instagram e TikTok.

Per cogliere meglio questo passaggio possiamo immaginarlo come uno slittamento lungo un piano inclinato che, a partire dal programma delle avanguardie, oggi per molti aspetti letteralmente realizzato dal folklore e dalle pratiche dilagate attraverso la rete, acquista velocità nella concettualizzazione selvaggia delle immagini e nella generalizzazione della performance collettiva. Cosa direbbero infatti i Surrealisti se potessero vedere i collages fotografici diventati una cosa di ogni giorno grazie alle piattaforme che permettono di creare, manipolare e “viraleggiare” miliardi di meme, video, GIF animate? E quanto sarebbe deliziato Duchamp da dispositivi che hanno avvicinato simili pratiche alla quotidianità al punto da renderle praticamente inseparabili da ogni attimo della nostra giornata? Cosa penserebbe poi Vito Acconci di performance estreme e insensate come l’Ice Bucket Challange o la Mannequin challenge, in grado di coinvolgere per settimane o mesi, attraverso i social, milioni di persone in tutto il mondo?

Memestetica evita di fornire risposte troppo facili: non tutto, naturalmente, si è svolto nel modo previsto dagli artisti, anche dai più visionari di pochi decenni fa: “il grande mito dell’interattività inseguito da artisti e teorici per decenni e tornato prepotentemente alla ribalta negli anni 90, con l’avvento del web, si è dunque realizzato secondo modalità molto differenti da quelli immaginati. La tanto auspicata partecipazione dello spettatore non si è concretizzata tramite la progettazione di interfacce invitando il pubblico a spingere bottoni attivare il congegno navigare all’interno di un documento ipertestuale”.
Il saggio filtra il landscape della rete attraverso le tendenze che i net-artisti emersi dalla nicchia dell’arte digitale hanno contribuito a illuminare, spesso mettendo in gioco la propria autorialità nel regno sterminato dell’anonimato digitale: con gli art selfie dissacranti del collettivo DIS o con un blog  a suo modo rispettoso della tradizione del ready made come Jogging di Brad Troemel e Lauren Christensen. O, all’opposto, come Marina Abramovic, grazie a una risonanza mediatica personale che in rete sfiora l’onnipresenza e la riverbera ogni giorno. Il libro, che si rivela in questo senso anche un prezioso atlante, da leggere consultando magari in parallelo le pagine e i video dei progetti sparsi per il web, suggerisce anche un lessico base dell’immagine digitale, attraverso la riscoperta di alcune parole chiave della storia dell’arte: dal “dirottamento” (détournement) dell’immagine di debordiana memoria agli oggetti assurdi o introvabili, dalle retoriche della tridimensionalità all’estetica del brutto.

Una storia che, come i virus informatici, di 1100101110101101.ORG sguinzagliati nei computer alla Biennale del 2001, si è svolta prevalentemente all’esterno o comunque ai margini del mercato dell’arte, preoccupato più che altro di ritagliarsi scampoli di autorevolezza e di spettacolarità, a difesa di una safe zone “per ricchi”. È, insomma, la storia di una transizione che promette adesso di riversarsi al di fuori di quello che spesso, ancora è stata descritta come “la rete”, direttamente in una realtà ora inevitabilmente “aumentata”.
Come osserva Valentina Tanni nelle ultime pagine di Memestetica: “un’etichetta per certi versi discutibile come post Internet è nata proprio per descrivere una generazione di artisti la cui opera è influenzata dal vivere in modo costantemente connesso”. E, citando Marisa Olson, artista e teorica americana della net art della prima ora: “è importante affrontare la questione dell’impatto che internet sta avendo sulla cultura in generale e questo possiamo farlo bene agendo sulla rete ma può essere può e deve essere fatto anche off line”.