“Esiste un mondo che puoi raggiungere solo tra le 3.30 e le 3.33 AM. Prima che tu ti metta in cammino devo avvertirti di alcune regole. Regola numero 1, non importa quanto siano belli, non raccogliere i fiori, se lo fai non te ne sbarazzerai più. Regola numero due, se vedi un uomo alto senza faccia, continua a camminare, in ogni caso non fermarti a guardarlo. Regola numero 3, se qualcuno ti offre del tè declina gentilmente e prosegui dritto, se ti inseguono CORRI. Qualsiasi cosa è meglio di bere il tè. Regola numero 4, la più importante di tutte: indossa tutto il tempo l’orologio, il tempo lì è bizzarro e se non hai un orologio con te si trasforma in niente e tu non saprai quando andartene.” [1]
Se l’arrivo di Internet ha rappresentato l’incontro con un’entità aliena, secondo la definizione che ne diede David Bowie un quarto di secolo fa [2], citata nel libro, c’è stato indubbiamente un momento in cui lo schermo del computer è apparso alla prima generazione digitale come la soglia che proiettava la tua forma astrale verso un altro mondo. Exit reality inizia non per caso precisamente da quella sensazione notturna, accompagnata dal ronzio del modem a 56K baud e dall’abisso che ti osservava mentre tu “navigavi” un World Wide Web ancora così sparuto da prevedere delle Pagine Gialle.
Questa soglia persiste oggi e si è propagata attraverso gli smartphone dentro alle nostre tasche, nel folklore sotterraneo che rigurgita dalle reti social e dai forum di Reddit, minuziosamente catalogato nelle sue genealogia e nelle sue “estetiche” da vere e proprie istituzioni online come Aesthetics Wiki, SPC Foundation (“un’organizzazione segreta che tiene oggetti ed entità anomali o soprannaturali lontani dagli occhi del pubblico”) o il più generalista ma sempre enciclopedico Know Your Meme. Anche questa è “la cultura di Internet”, malgrado Internet assomigli sempre più – come viene osservato nel saggio – a un “platopticon”, cioè a un ibrido tra la caverna di Platone e il panopticon di Jeremy Bentham, dove inseguiamo le ombre di una realtà ormai indistinguibile dalla finzione mediatica sotto lo sguardo onnipresente di un controllore.
Per milioni di nativi digitali oggi questa soglia non configura affatto un confine con il mondo real-life della fisica. La soglia si estende piuttosto a un incerto spazio liminale, una zona franca enigmatica ma permeabile a incursioni videoludiche, perturbante e weird come le migliaia di black room post industriali giallastre o le dreaming pools, le piscine oniriche, che affollano decine di canali YouTube ma, anche, ironicamente tranquillizzante e terapeutica. Una dimensione infestata ma familiare che diventa improbabile rifugio da un passato spesso percepito come traumatico come da un presente inesorabilmente votato all’estinzione. In questa zona intermedia, sovrastata dall’immagine totem del verdissimo e onnipresente prato di Windows Xp – una foto diventata nel tempo “più irreale del reale” – si riconosce facilmente la nostalgia con i colori pastello per un futuro non pervenuto, la hountology già intercettata da Mark Fisher, salvo che qui ormai a prevalere è soprattutto, il desiderio di abbandonare la realtà fuori di sesto, che dà luogo al titolo.
Ricercatrice, critica d’arte, detective dell’ignoto digitale, Valentina Tanni in Memestetica ha già ripercorso a ritroso, caso unico in Italia, i fili che collegano la net-art di questo secolo alle avanguardie di quello precedente. In questo nuovo saggio indaga ora le tendenze e le estetiche di quelle che fino a qualche tempo fa avremmo chiamato “sottoculture digitali” e che emergono oggi dagli imagestream su TikTok, YouTube e Instagram con hashtag come #dreamcore #weirdcore #corecore ecc. In questa storia di allucinazioni condivise anche artisti affermati come Izumi Kato risultano per lo più ispirazionali nella proliferazione virale e nella declinazione collettiva del folklore internettaro. Una declinazione, al di là di anacronistiche gerarchie estetiche, a sua volta artistica, e tutt’altro che marginale, che dovremmo insomma cominciare a riconoscere tra le prime significative incursioni all’interno di quel “subconscio della macchina” virtuale di cui parlava anche Antonio Caronia.[3]
In questo passaggio l’autrice cede volentieri spazio alla nerd e alla studiosa appassionata. L’impressionante ricerca compilativa che il libro offre può così accompagnarci attraverso lo shift emozionale, la vibe che alla fine prevale su ogni distinguo cartografico, è questa in fondo la premessa epistemica che conta per approcciare i “modulatori d’umore” ASMR – entrati nel giro di qualche anno anche nella moda mainstream – o il neo-sciamanesimo DIY dei lucid dream popolari tra le adolescenti.
Exit reality ci ricorda dove oggi ci troviamo, non importa se amiamo TikTok oppure odiamo i social: in uno spazio liminare, stazionario, sbilanciato tra la dimensione puramente mentale e la battlestation fisica, ingombra di schifezze, la testiera del computer imbrattata di batteri. Uno spazio estruso da una realtà frammentata che sempre più fatichiamo a decodificare e, anche più spesso, a immaginare modificabile. Come leggiamo in uno dei numerosi commenti tratti dai social che scandiscono il saggio: aspettiamo che le AI come MidJourney, Dell-E, Stable Diffusion comincino a riciclare le proprie immagini e forse anche la profezia di Bowie assumerà un nuovo significato.
[1] Testo dal post di @thebackkr0oms, 22-5-22, su TikTok (6.4 milioni di like alla data)
[2] Jeremy Paxman, David Bowie interview, BBC 1999
[3] Antonio Caronia, L’inconscio della macchina e altri scritti