Il 7 gennaio del 1978 – lo stesso anno del rapimento di Moro – a Roma in via Acca Laurentia due ragazzi fascisti vengono uccisi a sangue freddo da ignoti che si dichiarano appartenenti ai “Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale”, sigla usata solo in questa occasione. Un terzo giovane esponente della destra viene ucciso dalla polizia durante gli scontri di protesta seguiti all’omicidio. Da allora l’evento viene ricordato ogni anno dalla intera destra, il luogo è segnato da una croce celtica così grande da essere visibile anche su google maps, il ricordo è l’occasione per saluti fascisti e reincontri di vecchi e nuovi camerati.
Una decina di anni dopo i fatti, sulla base della flebile testimonianza di una pentita, Mario Scrocca – insieme ad altri esponenti di Lotta Continua che poi verranno tutti assolti in primo grado – viene arrestato per l’omicidio, e dopo l’interrogatorio da parte del giudice a distanza di poche ore muore in carcere. Molti anni dopo, Valentina Mira (autrice di questo romanzo) incontra e diventa amica di Rossella Scarponi, la allora giovanissima moglie di Mario Scrocca, il morto in carcere di cui sopra.
Il libro è il risultato dell’incontro fra la giovane autrice e la ormai sessantenne Rossella, vedova di Mario. Scrive Valentina Mira: “Scopro che entrambe sposiamo una visione di femminismo intersezionale, quello che vede molte lotte collegate tra loro e non reciprocamente subordinate: quella di genere, quella di classe, quella antirazzista, quella antiabilista, quella ecologista – e quella antifascista, naturalmente”. Vien da chiedersi se si possa essere femministe oggi senza questa preliminare dichiarazione di intenti. Ma è l’intero romanzo che nel raccontare le vicende di Acca Laurentia ha un po’ questo tono tra pedagogico e wikipedia… Uno scrivere che più degli anni Settanta mette in luce un modo di essere di sinistra delle persone che oggi hanno fra i 30 e i 40 anni. I personaggi sono evanescenti, le ragioni sterotipate, l’autrice – secondo un’espediente che ricorda Zerocalcare – si mette in scena e interviene parlando direttamente con il lettore per dire la sua con particolare virulenza sul fascismo e l’antifascismo. Nonostante sia sbagliato e anche un po’ vano giudicare con lo sguardo postumo lascia francamente perplessi che Mira per affermare che “L’antifascismo (…) fin dall’etimologia è una risposta; ed è violenta questa risposta, sì. Lo è necessariamente”, usi una delle vicende dell’antifascismo dell’altro secolo più contraddittorie vale a dire la mitragliata a freddo di due ragazzi, sicuramente fascisti e in una Roma in cui si doveva difendere e liberare gli spazi dai fascisti ogni giorno, ma… A maggior ragione stupiscono queste dichiarazioni così tranchant della pratica militante dell’antifascismo perché l’autrice fa parte di quella generazione di femministe intersezionali (come rivendicato) che ha elaborato anche un interessante pensiero sulla capacità e possibilità delle persone di cambiare e quindi su una giustizia trasformativa piuttosto che punitiva. Forse questa riflessione lascia fuori del tutto l’universo fascista per cui non c’è rimedio alcuno! Sarebbe interessante discuterne.
Nel libro infatti Mira scrive esplicitamente e lega la “necessaria violenza antifascista” anche alla sua vicenda personale e alla manipolazione subita da un uomo con cui ha avuto una relazione tossica. L’uomo – fascista per la cronaca – si definisce paradossalmente una vittima (incel?), così come la ricorrenza dei fatti di Acca Laurentia sono letti secondo un paradigma vittimario da chi li ricorda ogni anno. Fra questi, Mira comprende Francesca Mambro della quale vengono ricordate le considerazioni in merito all’omicidio di via Acca Laurentia e alla risposta istituzionale e prudente dell’MSI che non voleva rompere i propri rapporti con le forze dell’ordine, rifiutandosi di denunciare la polizia che aveva sparato in fronte a un ragazzo missino durante la manifestazione di protesta dopo i fatti. Proprio questo fece decidere la Mambro a radicalizzarsi e allontanarsi dal Partito missino. Per inciso Mira non crede affatto alle ripetute dichiarazioni di innocenza rispetto alla strage della stazione di Bologna della coppia Mambro-Fioravanti e in modo derisorio paragona il secondo al proprio ex compagno.
Questo libro ha suscitato un vespaio nella destra ed è stato accusato di aver giustificato le Brigate Rosse, l’uccisione dei due ragazzi, di non fare una riflessione di rammarico e di mettere all’indice, fra i fascisti che ogni anno si ritrovano a commemorare i due morti, Giorgia Meloni. Ma il vero mistero – visto che di un romanzo si parla come la stessa autrice rivendica apertamente – rimane questo: perché un libro scritto in modo così mediocre è finalista al premio Strega? Inoltre si può convenire che seppure una copertina non fa un libro è davvero inguardabile questo seno destro ammiccante su cui è scritto il titolo.
Infine l’autrice scrive che: “Mi piaceva inoltre che al lettore restasse, esattamente come è rimasto a me, un senso di ingiustizia addosso”. Su questo non si può che dare ragione a Mira. Comunque sia andata, se Mario Scrocca si sia suicidato o sia stato ucciso, era nelle mani dello Stato quando è morto e una ingiustizia c’è stata senza dubbio. Il tipo di violenza subita dai due giovani missini non partecipa del regime di garanzie che uno stato che si vuole democratico dovrebbe garantire ai propri cittadini. E quindi per Mario Scrocca rimane ancora oggi un senso di ingiustizia più fondo e mai riconosciuto e da questo punto di vista bene ha fatto Mira a ricordarcelo.